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L'arcipelago delle nostre emozioni ci appare dagli incerti confini. Non tanto, sconfinato. Né illimitato. Piuttosto, ci sembra di stare al centro di un territorio di cui non riusciamo a vedere fin dove si estenda e quali siano i passi indispensabili per procedere. Sono le nostre scarpe che non conosciamo. O meglio, non sappiamo bene dove ci porteranno i nostri piedi. Ma sappiamo bene che, in realtà, i nostri piedi vanno dove li sospinge il cuore. E il cuore? Non è forse intriso di pensieri? Tutti i moti della nostra anima non sono forse preceduti a accompagnati dalla nostra riflessione continua? Possiamo anche non riflettere! Vorrà dire che seguiremo i pensieri di qualcun altro, magari quelli che ci risuonano nella mente e che provengono dalle mille cose udite... Saranno allora le nostre credenze a prevalere e a guidarci.
Ma nelle cose del cuore, che sono poi le cose che si riferiscono ai nostri rapporti con il mondo, con gli altri, che cosa renderà possibile il compimento? E che cos'è compimento se non l'apertura al possibile, il mondo sconfinato delle nostre possibilità, che è il mondo della nostra libertà? All'incrocio tra due vie del cuore cosa troveremo? Smarrimenti, turbamenti, incertezze, ma soprattutto belle illusioni. Ci acconceremo a credere che la persona che sta lì davanti a noi sia interessata a noi, perché ci sorride, perché considera con attenzione le nostre cose. Quando interverranno fraintendimenti e incomprensioni, sarà il momento della verità.
Gli umani sono portati a credere che la verità sia il fatto accaduto ieri alle cinque. E' esattamente quello che ci è stato riferito. O quello che hanno visto i nostri occhi. Potremo dubitare dei nostri occhi? Ma siamo sicuri che la realtà in cui l'altro consiste corrisponda perfettamente alla nostra percezione di un fatto, di un evento e basta? Un mio vecchio amico filosofo mi ha insegnato una cosa sola, che lui esemplifica con le parole di uno scrittore, il viennese Hugo von Hofmannsthal: "La verità è il tono di un incontro".
Allora, non l'ostinato chiedere e recriminare su quello che è accaduto ieri alle cinque - come se la verità fosse un fatto! - vale nelle nostre relazioni umane, ma quello che c'è effettivamente tra di noi, ciò che sta accadendo: l'incanto dei giorni, il valore del reciproco cercarsi e trovarsi. Ma è facile incontrarsi? Ci incontriamo veramente?
Una professoressa della mia città mi ha detto con semplicità un giorno, come se non stesse dicendo niente di sconvolgente: "Un'altissima quantità di incontri umani viene distrutta da una scarsa tolleranza agli equivoci". Fraintendimenti ed equivoci sono fruttuosi: si potrebbe dire che da essi dipende una buona porzione della nostra vita. Quanto tempo, infatti, 'perdiamo' nei chiarimenti, nello sforzo incessante di fissare il significato da dare alle parole? Ma nel farlo, quanta umiltà e pazienza e compassione sono necessarie! Ciò che non riusciamo a fare bene è andare al cuore delle cose.
Il cuore della cosa stessa – la realtà dell’anima, la sua vita, le forme del suo sentire – è storia, narrazione, racconto, vicissitudine, incanto. Dentro il flusso della vita, nel caotico succedersi dei fatti quotidiani, non cerchiamo un Oriente: sappiamo di dover consistere nel magma indistinto, cercando appigli, file di continuità nella catena dei frammenti, riconoscimenti, la ‘salvezza’ delle cose oltre il loro svanire. Noi cerchiamo di risalire, oltre il disincanto del mondo, all’autentico dispiegarsi dell’esistenza umana.
Questi versi rendono bene l’idea di ciò che si dà quando si superi la linea di confine che separa dall’invisibile: l’accesso a quest’ultimo non è ingresso letterale, effettivo, l’affacciarsi determinato al senso dispiegato delle cose. Il contatto con l’anima e con il corpo dell’altro non è possesso. Non di un oggetto si tratta, infatti, ma di un soggetto che si dà per ritrarsi subito dopo, per pudore, perché sia salvo il nucleo di sé dall’oltranza della bellezza. L’insistenza del pettegolezzo e dell’insinuazione, come la rivelazione di segreti lungamente custoditi nell’anima, ma anche – più semplicemente – il tradimento dei sensi nascosti di una vita, che era stato consentito di conoscere per privilegio o per amicizia, tutto l’intrudere, l’invadere, l’irrompere scomposto e ‘non autorizzato’ è far precipitare nel disincanto una relazione non importa quanto profonda e importante.
Stare ‘al di qua’ è contemplare l’incanto delle cose. Anche l’amore non dovrebbe essere stropicciato. La manutenzione degli affetti prevede cura e attenzione, certo, ma anche distanza e rispetto.
L’arte di fare passi indietro andrà ‘coniugata’ adeguatamente da una parte e dall’altra con accettazione e perdono, con l’arte della redenzione del ‘così fu’: contro la malinconia, che tende a far precipitare nell’irredimibile torti e incomprensioni, occorre elaborare in ascolto l’accaduto, prevedendo l’approdo a un’innocenza seconda che non è impossibile attingere, oltre l’errore e la dimenticanza.
L’imperfezione dei nostri strumenti umani è colpa. Solo prudenza e pazienza, umiltà e accettazione potranno impedire il perpetuarsi dell’errore e il rischio della caduta nella confusione dei sentimenti, che si traduce nell’incapacità di percepire il valore di ciò che ci sta più a cuore. La colpa più grande è, tuttavia, perdere di vista l’incanto delle cose, accostarsi ad esse con distrazione e scetticismo, incuranti della fragilità delle esistenze che popolano il mondo intorno a noi.
Ma nelle cose del cuore, che sono poi le cose che si riferiscono ai nostri rapporti con il mondo, con gli altri, che cosa renderà possibile il compimento? E che cos'è compimento se non l'apertura al possibile, il mondo sconfinato delle nostre possibilità, che è il mondo della nostra libertà? All'incrocio tra due vie del cuore cosa troveremo? Smarrimenti, turbamenti, incertezze, ma soprattutto belle illusioni. Ci acconceremo a credere che la persona che sta lì davanti a noi sia interessata a noi, perché ci sorride, perché considera con attenzione le nostre cose. Quando interverranno fraintendimenti e incomprensioni, sarà il momento della verità.
Gli umani sono portati a credere che la verità sia il fatto accaduto ieri alle cinque. E' esattamente quello che ci è stato riferito. O quello che hanno visto i nostri occhi. Potremo dubitare dei nostri occhi? Ma siamo sicuri che la realtà in cui l'altro consiste corrisponda perfettamente alla nostra percezione di un fatto, di un evento e basta? Un mio vecchio amico filosofo mi ha insegnato una cosa sola, che lui esemplifica con le parole di uno scrittore, il viennese Hugo von Hofmannsthal: "La verità è il tono di un incontro".
Allora, non l'ostinato chiedere e recriminare su quello che è accaduto ieri alle cinque - come se la verità fosse un fatto! - vale nelle nostre relazioni umane, ma quello che c'è effettivamente tra di noi, ciò che sta accadendo: l'incanto dei giorni, il valore del reciproco cercarsi e trovarsi. Ma è facile incontrarsi? Ci incontriamo veramente?
Una professoressa della mia città mi ha detto con semplicità un giorno, come se non stesse dicendo niente di sconvolgente: "Un'altissima quantità di incontri umani viene distrutta da una scarsa tolleranza agli equivoci". Fraintendimenti ed equivoci sono fruttuosi: si potrebbe dire che da essi dipende una buona porzione della nostra vita. Quanto tempo, infatti, 'perdiamo' nei chiarimenti, nello sforzo incessante di fissare il significato da dare alle parole? Ma nel farlo, quanta umiltà e pazienza e compassione sono necessarie! Ciò che non riusciamo a fare bene è andare al cuore delle cose.
Il cuore della cosa stessa – la realtà dell’anima, la sua vita, le forme del suo sentire – è storia, narrazione, racconto, vicissitudine, incanto. Dentro il flusso della vita, nel caotico succedersi dei fatti quotidiani, non cerchiamo un Oriente: sappiamo di dover consistere nel magma indistinto, cercando appigli, file di continuità nella catena dei frammenti, riconoscimenti, la ‘salvezza’ delle cose oltre il loro svanire. Noi cerchiamo di risalire, oltre il disincanto del mondo, all’autentico dispiegarsi dell’esistenza umana.
Ciò che pregavi con amore,
che come cosa sacra custodivi,
il destino alle vane ciance umane
ha abbandonato per ludibrio.
La folla entrò, la folla irruppe
entro il sacrario dell’anima tua,
e di misteri e sacrifici ad essa
aperti tu arrossisti tuo malgrado.
Ah, fosse mai che le ali vive
dell’anima librata sulla folla
potessero salvarla dall’assalto
dell’immortale volgarità umana!
Fëdor Tjutcev
Questi versi rendono bene l’idea di ciò che si dà quando si superi la linea di confine che separa dall’invisibile: l’accesso a quest’ultimo non è ingresso letterale, effettivo, l’affacciarsi determinato al senso dispiegato delle cose. Il contatto con l’anima e con il corpo dell’altro non è possesso. Non di un oggetto si tratta, infatti, ma di un soggetto che si dà per ritrarsi subito dopo, per pudore, perché sia salvo il nucleo di sé dall’oltranza della bellezza. L’insistenza del pettegolezzo e dell’insinuazione, come la rivelazione di segreti lungamente custoditi nell’anima, ma anche – più semplicemente – il tradimento dei sensi nascosti di una vita, che era stato consentito di conoscere per privilegio o per amicizia, tutto l’intrudere, l’invadere, l’irrompere scomposto e ‘non autorizzato’ è far precipitare nel disincanto una relazione non importa quanto profonda e importante.
Stare ‘al di qua’ è contemplare l’incanto delle cose. Anche l’amore non dovrebbe essere stropicciato. La manutenzione degli affetti prevede cura e attenzione, certo, ma anche distanza e rispetto.
L’arte di fare passi indietro andrà ‘coniugata’ adeguatamente da una parte e dall’altra con accettazione e perdono, con l’arte della redenzione del ‘così fu’: contro la malinconia, che tende a far precipitare nell’irredimibile torti e incomprensioni, occorre elaborare in ascolto l’accaduto, prevedendo l’approdo a un’innocenza seconda che non è impossibile attingere, oltre l’errore e la dimenticanza.
L’imperfezione dei nostri strumenti umani è colpa. Solo prudenza e pazienza, umiltà e accettazione potranno impedire il perpetuarsi dell’errore e il rischio della caduta nella confusione dei sentimenti, che si traduce nell’incapacità di percepire il valore di ciò che ci sta più a cuore. La colpa più grande è, tuttavia, perdere di vista l’incanto delle cose, accostarsi ad esse con distrazione e scetticismo, incuranti della fragilità delle esistenze che popolano il mondo intorno a noi.
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