Al di qua dello sguardo - Elegia della vita schiva

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lunedì 13 dicembre 2010

Fermare il tempo

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Trascorriamo la nostra vita convincendoci giorno dopo giorno che sia possibile dare ordine al movimento caotico delle cose intorno a noi. Ci adoperiamo per decenni, anno dopo anno, a far sì che l'ambiente interno corrisponda a quello esterno, che ci sia equilibrio e misura in noi. Approntiamo i più raffinati sistemi per realizzare la distanza desiderata tra noi e le cose. Ci sforziamo di applicare gli stessi accorgimenti ai nostri rapporti con le persone. Oscilliamo nelle prime età della vita tra progetto e destino, passando dall'idea che tutto possa essere cambiato alla contemplazione a volte rassegnata che nulla cambi, che le persone non cambiano mai. Ci rivolgiamo agli altri sempre protesi al cambiamento che invochiamo in loro, affannandoci a cambiare noi stessi, dopo avere sposato l'idea regina che siamo noi a dover cambiare (per primi).

L'età adulta e la maturità, che non ricordiamo bene cosa sia, provvedono a renderci realisti, ma resistiamo anche all'idea che ci si debba rassegnare alla realtà così com'è. Accumuliamo sentenze e proverbi sulla vita da utilizzare nelle circostanze più diverse, ricorrendo a massime e frasi celebri che magari contrastano fra di loro. Nei momenti di grande lucidità ci aggrappiamo a una sola verità che pretendiamo definitiva, salvo poi pentirci di aver chiuso la vitalità nostra e degli altri in una formula rigida in cui non è mai saggio chiudere il fiume della vita che si porta ogni cosa con sé. Tra la saggezza di chi contempla immobile lo spettacolo della vita e chi la insegue freneticamente, convinto che sia l'unica cosa da fare - "chi si ferma è perduto!" -, non ci decidiamo mai a scegliere, come se si trattasse di abbracciare una filosofia di vita che finalmente ci renderà felici. Ci spaventa la stasi, l'immobilità, perfino la vita contemplativa, come se evocassero la morte. Non vogliamo star fermi a guardare.

Ci sembra anche, però, che si debba camminare, non necessariamente correre. Ci hanno detto che esperienza significa 'vissuto' ma anche, forse meglio, 'cammino'. Quando cerchiamo autenticità e interiorità, con il lungo corteo delle virtù che si richiedono per poter dire "questo è un uomo", ci aggrappiamo ai 'vissuti', che giudichiamo veritieri. Quando vogliamo crescita e cambiamento, invochiamo la capacità di 'camminare', di avanzare, occupando posizioni 'superiori' rispetto a quelle 'di partenza'. Ci affidiamo per buona parte della vita ora all'una ora all'altra idea dell'esperienza. Poi decidiamo che l'una non possa escludere l'altra. Allora ci adoperiamo per conciliare, raccordare, integrare, sommare. Tutto sembra (più) chiaro.

Resta da decidere del tempo, se debba essere considerato medico oppure no. Se abbia il potere di curare oppure no. Se siamo sempre e solo noi a portare conforto e a lenire il dolore o se occorra avere fiducia nelle cose, nel potere della coscienza, che depura, decanta, purifica, incurante del tempo che pigramente indugia ed esita.

Continuiamo a credere, convinti di noi, che basti stare accanto a una persona, magari in silenzio, per farle sentire che non è sola. Sappiamo per esperienza che è sufficiente questo ed altro ancora, appena una parola al momento giusto, per testimoniare il nostro muto amore. Non intendiamo rassegnarci all'idea terribile di chi richiede infinite prove al nostro cuore, perché mai pago del nostro antico amore.

Abbiamo imparato a consistere qui e ora, presso di noi, in quiete e in movimento, assorti e pensosi, scomposti e aggressivi, agitati e pacifici, aperti e chiusi, esaltati e malinconici, estasiati e atterriti, con le soglie basse e in punta di piedi, come voce d'organo e striduli e straziati e stanchi e protesi a chiedere sempre ancora un po' d'amore.

Ci avevano promesso non so cosa, ma siamo stati avvertiti nello stesso tempo di non illuderci. E ci siamo aperti alla speranza e non ci siamo illusi più.

Ma come si fa a vivere, ditemi voi, senza sognare una voce che parli a noi e uno sguardo che cerchi noi, proprio noi, in mezzo alla folla, e che si fermi a lungo a contemplare noi, proprio noi, realizzando per poco o per tanto che si fermi il tempo, e come si fa a decidere poi se quel sogno debba durare ancora e quanto e se possiamo dire sì e continuare a credere ancora che si può sognare anche di giorno, sicuri che non siano già entrati i ladri in casa a derubarci dei nostri sogni più cari, sbattendoci sulla soglia dimora di prima?

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martedì 7 dicembre 2010

La forza delle illusioni

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Caro Dario,

ti sarà accaduto sicuramente più di una volta di ritrovarti a pensare che una vicenda conclusa, non importa quale, aveva recato con sé un insegnamento: ti eri abbandonato all'illusione; ti eri rappresentata la realtà più interessante e carica di aspettative di quanto non fosse in sé. E' facile parlare delle illusioni, come se riguardassero persone portate a sognare, ad immaginare come vero ciò che non è, a vivere su piani di realtà che poi vengono sconfessati dai fatti. E' veramente difficile ammettere quanto di illusione ci sia in tutto quello che facciamo! Se solo consideri le fantasticherie che precedono sempre l'azione, le anticipazioni di incontri, le presupposizioni su ciò che gli altri sono, e poi l'abbandono fiducioso alla credenza. Non mancano i buoni ragionamenti a sostegno delle tesi più strampalate, anche se poi si scopre che alla loro base non c'era un solido riscontro nella realtà!

Quante volte abbiamo ammesso di esserci sbagliati, di aver fondato anche per anni le nostre convinzioni su idee non provate, su meri presupposti? Ci basta un indizio per arrivare a dire di avere prove sicure sulla bontà di un comportamento, di una convinzione, di un'idea che ci siamo fatti di qualcuno!

L’illuso ignora la realtà nella sua tangibile evidenza, o meglio, non la ignora, ma la oblitera, la cancella, la rimuove, o meglio ancora, non la rimuove del tutto ma la ritiene marginale e di poco conto, rispetto all’evidenza dei suoi sogni, luminosa e quasi corposa. (LIONELLO SOZZI, Il paese delle chimere. Aspetti e momenti dell’idea di illusione nella cultura occidentale, SELLERIO EDITORE 2007, p.16)

Può accadere, certo, che noi elaboriamo il fantasma di un’intesa sublime con gli altri sulla base di spunti in realtà assai modesti, cui attribuiamo significati e promesse del tutto abusivi, così come ascriviamo a noi stessi meriti che non sussistono, e accarezziamo l’ideale ma poi non abbiamo la strenua costanza e l’assidua fermezza necessarie per restargli fedeli. Non traduciamo in nulla i nostri sogni, ci accontentiamo di una sorta di velleitaria nostalgia. […] incapacità di capire il reale, d’intendere che l’“altro” non è affatto tenuto ad adeguarsi ai nostri modelli, percorre le sue vie e compie le sue scelte, che coltiva a sua volta miraggi e progetti assai lontani dai nostri. […] Ogni uomo è chiuso nel bozzolo dei suoi sogni. (p.17)

Ben altra è la natura della speranza: essa ci porta lontano dalle nostre chimere, nella terra incognita che abitano gli altri. Lì siamo al sicuro.

«La speranza è come un ponte che si innalza al di sopra di ogni situazione […]. Come un ponte che ci fa uscire dalla nostra solitudine e che ci mette in una relazione senza fine con gli altri: con gli altri, in particolare, che soffrano e chiedano aiuto; ma, ancora, cosa è mai un cuore senza speranza?» (Eugenio Borgna, L’attesa e la speranza, FELTRINELLI 2005, p.51)

La cultura popolare si abbandona alle sentenze facili, spesso contraddittorie, che si contraddicono tra di loro. Avrai sentito dire "Finché c'è vita c'è speranza", accanto al più volgare "Chi di speranza vive disperato muore"! Quando smettiamo di pensare, finiamo per credere che non sia possibile uscire da quell'antinomia: le due sentenze sono vere entrambe! Il nostro scetticismo sulle cose dipende dal disincanto in cui ci precipitano le nostre delusioni. Come se la vita perdesse tutte le sue attrattive! Ma proprio questo oscillare la Musica cerca di esprimere, senza dare troppo credito alla volgare negazione della speranza. Si potrebbe dire che è il mezzo più importante per dare voce alla speranza.

Il germanista Claudio Magris in un brillante saggio intitolato Utopia e disincanto afferma che utopia e disincanto

«anziché contrapporsi devono sorreggersi e correggersi a vicenda». […] «Il disincanto è un ossimoro, una contraddizione che l’intelletto non può risolvere e che solo la poesia può esprimere e custodire, perché esso dice che l’incanto non c’è ma suggerisce, nel modo e nel tono in cui lo dice, che esso, nonostante tutto, c’è e può riapparire quando meno lo si attende. Una voce dice che la vita non ha senso, ma il suo timbro profondo è l’eco di quel senso». […] «Il disincanto, che corregge l’utopia, rafforza il suo elemento fondamentale, la speranza. […] La speranza non nasce da una visione del mondo rassicurante e ottimista, bensì dalla lacerazione dell’esistenza vissuta e patita senza veli, che crea un’insopprimibile necessità di riscatto. […] Il disincanto è una forma ironica, malinconica e agguerrita della speranza» (p.53).

Io vorrei che tu mi immaginassi così: proteso verso la vita, ma non ingenuamente preso dagli inganni della mente. Sicuramente, fiducioso nella forza dell'ideale, ma con gli occhi spalancati sulla realtà. Esitante e timoroso, a volte, ma assolutamente certo del tuo affetto.

Con questo sentimento, ti ringrazio delle tue visioni della Brughiera di Derry: mi aiuti ad immaginare quello che presto vedrò con i miei occhi. Magari, ci costruirò intorno i miei sogni ad occhi aperti. Questa attesa non sarà sterile né vana: la sorregge la speranza - che è sempre certezza - che tu ci sarai ad accogliermi con la fraternità di sempre.

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domenica 5 dicembre 2010

La forma di un sogno

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Caro Dario,

questa notte ho fatto un sogno di quelli che andrebbero subito sottoposti all'attenzione di uno psicoanalista, perché interpretarlo non credo sia facile.
Ero vicino alla mia donna, quasi dentro di lei, di fianco, leggevo dentro di lei: ho letto un suo sogno, come se lo scrutassi dal buco di una serratura. Lei sognava di poter sognare due o tre sogni, che però erano aggrovigliati, accartocciati, quasi una cosa sola. Lei sentiva che da quei sogni dipendeva una sorta di liberazione sua, come se la opprimesse qualcosa che era racchiuso in quei sogni. Durante tutto il mio sogno, il peso ingombrante dei suoi sogni era avvertito anche da me. Come se io fossi lei. C'è stato un 'lungo' argomentare silenzioso tra me e me su quella massa di sogni. Lentamente si sono distinti l'uno dall'altro. Erano forse tre. Ma non potevano essere sognati tutti insieme. Il dolore forse nasceva proprio dal fatto che erano troppi. Così c'è stato il momento risolutore: mi sono concentrato sul primo, che era all'inizio, come se stessero in fila. Non c'era molto dentro. Almeno così credo. Era come se fossero solo involucro. Masse gommose. Lo scioglimento dell'incubo è arrivato quando finalmente ho separato il primo sogno dagli altri. E' stato come scoprire che non c'era altro da fare. Niente altro da sognare.

Tu forse ricorderai che io non sogno mai. In tutta la mia breve vita, fin qui, avrò sognato due o tre volte. Sarà un periodo brutto questo, se mi ritrovo con questo sogno tra le mani. Ho pensato che per questo forse non riuscivo più a scrivere. Ho fatto passare un po' di tempo dalla tua ultima lettera. Ero come pietrificato da qualcosa. Ora non più. Tornerò a scriverti nel pomeriggio.

Ti abbraccio.

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