Al di qua dello sguardo - Elegia della vita schiva

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giovedì 3 febbraio 2011

Forse un canto

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La timidezza è stata la prigione della mia vita MONTESQUIEU

«La timidezza - solo i timidi lo sanno, non per passatempo ma per virtuosa perseveranza - può essere e diventare melodia di un'esistenza, seppure sottotono e sommessa. Percepibile appena, nel suo segnale smorzato. Inudibile da orecchie che non vi siano avvezze. Tanto più che, come scrisse Maria Zambrano, se "I cieli sono molteplici" e "Cielo al singolare è un'astrazione", ogni cosa, i sentimenti ancor più, va colta nella sua molteplicità. Esistono le timidezze, che qualcosa hanno da condividere fra di loro, senz'altro il rapporto con la solitudine. Rifuggito da chi ha la vita funestata dalle fobie, cercato da chi le paure ha saputo ammaestrare».

Fin qui Duccio Demetrio, l'autore di un libro curioso che ho scoperto in una libreria al centro di Tolentino: La vita schiva. Il sentimento e le virtù della timidezza. La citazione di Montesquieu è rubata da lì. Il paragrafo introduttivo è fatto con le parole di Demetrio. Si apre così un capitolo intitolato Schiavitù o forse un canto? - Ho voluto intitolare questo post Forse un canto per dare una risposta: io sono in una fase della mia vita in cui mi esprimo, riesco ad esprimere i contenuti della mia esperienza. Lo faccio come turnista, come amante e come insegnante. Ma sono anche figlio, fratello... Alle mie cose riesco a dare valore, perché nei lunghi momenti di pausa - come quello trascorso fra il 13 dicembre e il 3 febbraio - mi chiudo nella mia solitudine. Ma forse sarebbe più giusto dire: mi apro nella mia solitudine, perché sono quelli i momenti magici in cui il cuore canta. Parlo con Martina delle cose che non sono riuscito a dirle nel rapporto faccia a faccia. Parlo con i miei allievi di musica. Parlo con me stesso.

Faccio anche i conti con le mie paure. Le osservo. Le studio. Le analizzo. Ripercorro con la memoria i piccoli passi che mi hanno portato a fermarmi spaventato, anche per una piccola cosa. Questo esercizio non mi è stato insegnato da nessuno. I timidi lo sanno bene. Non fanno altro che chiedersi perché e come siano arrivati a tanto. Ad ogni fallimento, ad ogni blocco bisogna continuare a pensare. Lo facciamo subito, appena rientrati a casa, o dopo un incidente con qualcuno che abbia fermato il corso delle cose, paralizzando la lingua e il cuore.

Il subbuglio del cuore è ingorgo emotivo, rossore, immediato senso di colpa. Quando frequentavo la Scuola elementare, ricordo nitidamente episodi tutti uguali e dolorosi per me. Se qualcuno aveva rubato una merenda a un compagno e la maestra ci guardava con occhio torvo cercando di smascherare il colpevole, io arrossivo. Anche se non ero stato io. I timidi sono colpevoli. Sempre. Forse Kafka era un timido. Mi hanno detto che tutta la sua opera è attraversata dal sentimento della colpa. Addirittura avrebbe scritto di essere colpevole comunque, anche se convinto di non aver commesso alcunché. Fatte le debite proporzioni - non intendo certo paragonarmi a lui! -, si potrebbe dire che è la stessa cosa. Quante volte il timido si addossa la responsabilità di cose che non sono nate da lui?

Con Martina è un po' diverso. Lei sa di me. Mi prende in giro. E questo non sempre mi piace. Quando se ne approfitta, va a finire male. La pianto lì e me ne vado. Mi chiudo in camera e mi immergo nel suono del mio pianoforte. Continuo così la discussione con lei. Ecco, la solitudine è questo per me. Sono i momenti in cui debbo riconciliarmi con qualcuno. E lo faccio nei modi che conosco io. Il dialogo continua con una pagina di Miles Davis. Perciò dicevo: mi apro nella mia solitudine. Se Martina ha chiuso il mio cuore, in solitudine lo riapro e imparo così a fare da solo quello che sicuramente imparerà anche lei, cioè a chiudere e ad aprire.

Io sono ben nascosto per un po' in quella stanza inaccessibile con la porta spalancata in attesa. Se nessuno verrà a dire parole nuove, provvederò io, magari con una canzone di Cole Porter, perché l'amore non è sempre come una sonata di Bach. Più spesso è come una canzone. E bisogna cantare. Ingannare il tempo che passiamo a recalcitrare contro il Destino, perché si levi almeno sommessamente un canto nuovo ad ogni esitare della vita e ad ogni pausa imposta dai capricci del cuore.


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