Al di qua dello sguardo - Elegia della vita schiva

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martedì 15 febbraio 2011

Davanti ai miei occhi


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Ero timida durante le lezioni di flauto, sia con un maestro sia con l'altro. Una timidezza tale che ora la devo scrivere scegliendo parole e forma, mi sembra persino impossibile. Col primo maestro forse essa poteva trovare una certa giustificazione, ero perdutamente innamorata di questo giovanissimo uomo e il tremore, il batticuore avevano le loro ragioni. Sudavo, le mani tremavano, le spiegazioni che mi dava non si fissavano bene in testa... i miei pensieri erano altrove, fantasticavo... ma mi sembrava un sogno troppo lontano, mi sentivo piccola e soprattutto brutta. Avevo dodici anni e lui cinque più di me, ed ero stata scoperta: "Non sarà che ti sei innamorata di Gianni...". Udivo la voce di mia madre mentre guidava e mia sorella seduta davanti e io dietro a guardare la luna piena, zitta. Loro alleate e io sempre più silenziosa. - Dallo scritto autobiografico di C.G., Archivio Anghiari 2007
Sfogliando il volume di Duccio Demetrio sulla timidezza di cui vi ho già parlato, ho incontrato questa testimonianza autobiografica da lui raccolta nella Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari. E' una ragazza che parla del suo rapporto con il maestro di musica. E' solo una ragazza, ma se penso ai miei allievi e alle tre allieve che si ritrovano con loro a prendere lezioni da me, mi domando cosa significhi l'impaccio, l'imbarazzo, l'esitazione, il rossore di una di esse che mi fa dubitare di lei. Bastano pochi sguardi, più lunghi del necessario e più intensi di quelli di un allievo che abbia la testa piena di musica per pensare che potrebbe darsi per lei una situazione paragonabile a quella della ragazza dell'autobiografia.

Questo accade talvolta sotto ai nostri occhi. Quello che vediamo è poco. Siamo autorizzati a pensare che di altro si tratti, che quei segni siano portatori di significati per noi, che riguardino noi? Sono convinto che non lo sapremo mai, almeno quando si tratti di persona schiva, che farà di tutto per nascondere emozioni e sentimenti. Troppe cose impediscono di agire diversamente. Un precoce senso della solitudine, inizialmente subita, ma poi sempre più riconosciuta come inevitabile e, tutto sommato, cara compagna dei giorni. Il senso del corteggiamento e dell'inizio. Anche a me è capitato - e capita ancora oggi! - di essere affascinato dalle cose al loro inizio. Sarei tentato di dire che mi interessa solo quello. Quando vedo un film d'amore, sono proteso interamente a godere tutti i preliminari di una storia d'amore: quanto più lento è il cercarsi e l'avvicinarsi senza esprimere ancora i sentimenti, tanto più mi piace la storia! Penso che quegli istanti siano eterni.
Abbiamo qualcuno di fronte a noi che esiste, semplicemente. Parla e gesticola, ma soprattutto esprime con tutti i muscoli della faccia le infinite emozioni che prova. E a noi sembra di coglierle tutte. E vorremmo tenerle per noi, che fossero dedicate tutte a noi. E ci si innamora per un po' di quella delizia del volto, che non è più solo una faccia. E' già un volto, una nostra costruzione, ma non un'invenzione campata in aria: ci siamo messi già a istituire file di continuità, ad immaginare un seguito alla storia, che vogliamo far durare, che vorremmo non finisse mai. Ma stiamo già costruendo castelli in aria! Ci illudiamo già che possa durare. La macchina del desiderio si è messa in moto...

Ma con un'allieva è diverso. Dobbiamo nascondere ogni più innocente moto dell'anima, per non turbare il rapporto educativo che ci lega. Dentro quel poco cercheremo di investire molto, facendo della musica il terreno per incontrarci, mettendo tutta la nostra innocenza, perché è sempre così: quando davanti ai nostri occhi si mostra la bellezza non siamo solo spaventati da essa, la mente si rallegra. Ci apriamo a nuove evidenze. Quello che appare ci piace, ci chiama. Dobbiamo, però, sostare un po' a considerare quanto di quella bellezza ci appartenga, quanto possa essere godimento effettivo, anche se furtivo. Nessun cedimento è concesso. Al più, il piacere di osservare, pensando di non essere scoperti. Così ci allontaniamo anche noi - magari come un'allieva schiva - custodendo nel cuore il segreto di un giorno.

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domenica 13 febbraio 2011

Legna da ardere


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Un turnista non è privo di occhi e di mani. Di queste e di quelli si servirà per dire, magari con un piano, quello che ha visto. Se è un pianista. Non vorrete negargli il privilegio di essere esecutore, io dico anche interprete!
Se una canzone degli anni sessanta vi apparirà esattamente come l'avete sempre goduta, vorrà dire che lui con le sue mani avrà restituito, senza saperlo, movenze e pause che coincideranno con le vostre attese.
C'è poi il compito di trasmettere ai propri allievi quello che hanno visto i vostri occhi, se siete un turnista. Nella vita di tutti i giorni prima ancora che ci si parli, ci si guarda negli occhi. E sono gli occhi che ci consentono di farci intravedere qualcosa, a volte qualcosa di essenziale, nella persona che è davanti a noi: nelle sue emozioni e nei suoi stati d'animo. Sono le parole che consentono poi un'altra, ben più complessa comprensione di quello che si è svolto e che si svolge nella storia di un'anima. Ma le parole hanno bisogno degli occhi, degli sguardi, delle loro infinite espressioni, se intendono essere sincere e se intendono essere prese sul serio da chi ascolta. Ma anche gli occhi hanno un loro linguaggio. Occhi, e sguardi, e voce contribuiscono a fondare la nostra identità, a dare voce alla nostra anima e al nostro destino. La medicina non ci dice che dagli studi sull'occhio e sulla visione sia venuto fuori anche lo sguardo: questo soltanto è incontro con il destino delle persone con cui veniamo a contatto. Gli occhi non solo vedono ma ascoltano il visibile e l'invisibile. Essi avvertono il mistero di un'anima, che si manifesta nella sua fuggitiva ragione quando gli occhi dell'altro si illuminano in uno sguardo. E' lo sguardo che dà senso all'esistenza altrui. E' dallo sguardo dell'altro che riceve senso la mia esistenza.
Considerate ora queste parole:
Imagine there's no heaven
It's easy if you try
No hell below us
Above us only sky
Imagine all the people
Living for today...

Imagine there's no countries
It isn't hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too
Imagine all the people
Living life in peace...

You may say I'm a dreamer
But I'm not the only one
I hope someday you'll join us
And the world will be as one
e provatevi a pensare come 'entrare' in una esecuzione della nota canzone. Si tratterà di semplice esecuzione? di bravura strumentale? Non dovrete metterci niente di vostro? E cosa, se non il cuore? Quello che ha sentito e visto un artista prima di voi non dovrete vedere e sentire anche voi per poterlo interpretare? E questo non è poi ciò che vi aiuterà ad esprimere originalmente quello che vedete e sentite voi?

Ritrovarsi a leggere la lettera di una studentessa di liceo che lamenta la condizione di chi, essendo giovane, non può nutrire troppe speranze, dati i tempi, non dispone bene all'inizio di una giornata. Non che sia preferibile non pensare ai problemi dei giovani, ma fa male al cuore scoprire fino a che punto sia giunta la disperazione: trovare un lavoro che duri, un amore che duri, una vita che non riservi brutte sorprese... Lo studente si aspetta di essere sostenuto dagli adulti e dagli Educatori. Egli vuole su di sé uno sguardo che lo concepisca non come vaso da riempire, ma come legna da ardere. Non vuole solo sacrifici e rinunce, ma anche calore e passione. Io sento questo compito: ai miei allievi non debbo insegnare solo uno strumento, i segreti dell'arte, della tecnica. Debbo incendiare i loro cuori, perché sentano il calore delle parole di una canzone. Perché le pieghe dell'anima si facciano finalmente musica. Perché non si riducano mai a scrivere 'sulla' musica, ma 'con' la musica, restando musicalmente complici del suo mistero come del mistero della vita.

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venerdì 4 febbraio 2011

Dentro un'impazienza

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Sono fermo qui, in mezzo ad un'impazienza di cui debbo liberarmi al più presto. Avevo tra le mani La vita di schiva di Duccio Demetrio, che ho preso a leggere perché è di me che parla e sento che mi accompagnerà a lungo, per molto tempo ancora, dopo aver tentato di leggere fino in fondo: non sarà facile, infatti, esaurire un'opera che ad ogni nuovo capitolo mi immette nel mezzo di una verità che mi costringe a fermarmi, a riflettere, a verificare, a sperimentare. Soprattutto, a riflettere. E' doloroso andare avanti. Le cose appena lette fanno male. Sono così vere che debbo fare qualcosa: non posso continuare a leggere oggi. E oggi significa: in questi giorni, in queste settimane. E' sempre così: sono un cattivo lettore. Impiego molto tempo ad esaurire un libro. Demetrio esalta la virtù dell'indugio nella vita schiva, ma per me è tormento. Mi sembra di essere inconcludente, di non riuscire mai a concludere nulla: salto di palo in frasca. Mi lascio distrarre da sempre nuove intuizioni, che mi portano lontano dalla lettura di oggi...

E l'impazienza che mi allontana da me, per portarmi su sponde non meno importanti per me è un altro libro di Demetrio che ho trovato in libreria in bella mostra accanto all'opera dedicata alla timidezza. Si tratta de L'interiorità maschile. Le solitudini degli uomini. Opera immensa, piena di lezioni, tutte da apprendere. Ancor più dolorose. Dopo l'elenco dei vizi, le possibili virtù. Ho cercato sul sito della casa editrice. Poi sui siti di Demetrio. Sarebbe veramente lungo raccontare le scoperte, che vi risparmio. Vi basti solo questa: Demetrio ha inventato una Università dell'Autobiografia! Insegna a scrivere di sé, a raccontarsi. Uno dei suoi libri importanti è proprio Raccontarsi. L'autobiografia come cura di sé. Capite da dove nasce l'impazienza? Avrei dovuto comprare anche quest'ultimo libro? Sicuramente lo farò, per capire cosa io stia facendo, se questo scrivere nasce da un bisogno di 'cura', ma non capisco di che cosa! Allora, non sono del tutto sano? Perché scrivo di me, in queste forme a volte poco narrative? Per evitare il nucleo caldo e doloroso della materia del mio vivere quotidiano, perché lì è nascosta la ragione per cui non ho mai suonato in pubblico in un gruppo jazz? Cosa temo? Improvvisare non è forse la stessa cosa che vivere? Dunque, ho paura di vivere?

Sento come una febbre addosso, ora. Debbo tornare assolutamente a cercare dentro il libro da cui sono partito. Montaigne dice che la timidezza è stata la gabbia in cui è stata rinchiusa tutta la sua vita. Perché queste parole sono così dure da comprendere per me? Non è forse questo anche il mio destino? Demetrio aggiunge al titolo della sua opera un sottotitolo che suona così: Il sentimento e le virtù della timidezza. Non un vizio o una menomazione, dunque. Un sentimento. Da cui possono germinare virtù che sono proprie della vita schiva. La timidezza, da tratto del carattere, deve farsi vita schiva.

Sapete cosa ho scoperto alcuni giorni fa? Una delle mie allieve sta leggendo il libro di Demetrio! Mi sta 'seguendo'? Oppure, è una felice coincidenza? Ho trovato un compagno di sventura? Ecco, ho detto 'sventura'. E' così, io penso che un timido non sia poi così fortunato. Che abbia a che fare con una materia 'bassa', di cui sarebbe meglio non parlare. Adesso mi sarà un po' difficile guardare negli occhi quella allieva. Non mi piace condividere una debolezza con una donna... Insomma, debbo procedere per conto mio. Di nuovo la solitudine. Tutto torna. Debbo continuare a legge e farmi guidare per mano da Duccio Demetrio. Si può raccontare una lettura? Beato mio fratello Dario! Lui non ha mai avuto di questi problemi. Per lui la vita è un calice da bere fino in fondo ogni giorno, senza esitazione. Altro che indugio! Non gli sfugge nulla della vita. Ma nemmeno a me la vita sfugge! Si tratta di vedere bene di che pasta io sia fatto, in fondo.

Adesso non mi sembra di essere più impaziente. Forse, non sono veramente insoddisfatto di me. Forse la mia vita sta prendendo decisamente la piega di una 'vita schiva'. Forse non di 'malattia' si tratta. Non di un neo del carattere. Forse, raccontando ancora riuscirò a dire meglio cosa accada intorno a me. Ma soprattutto dentro di me. E' questo il paesaggio che preferisco contemplare. Da lì nascono le note della mia musica. Forse, ho motivo di sperare per me.
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giovedì 3 febbraio 2011

Forse un canto

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La timidezza è stata la prigione della mia vita MONTESQUIEU

«La timidezza - solo i timidi lo sanno, non per passatempo ma per virtuosa perseveranza - può essere e diventare melodia di un'esistenza, seppure sottotono e sommessa. Percepibile appena, nel suo segnale smorzato. Inudibile da orecchie che non vi siano avvezze. Tanto più che, come scrisse Maria Zambrano, se "I cieli sono molteplici" e "Cielo al singolare è un'astrazione", ogni cosa, i sentimenti ancor più, va colta nella sua molteplicità. Esistono le timidezze, che qualcosa hanno da condividere fra di loro, senz'altro il rapporto con la solitudine. Rifuggito da chi ha la vita funestata dalle fobie, cercato da chi le paure ha saputo ammaestrare».

Fin qui Duccio Demetrio, l'autore di un libro curioso che ho scoperto in una libreria al centro di Tolentino: La vita schiva. Il sentimento e le virtù della timidezza. La citazione di Montesquieu è rubata da lì. Il paragrafo introduttivo è fatto con le parole di Demetrio. Si apre così un capitolo intitolato Schiavitù o forse un canto? - Ho voluto intitolare questo post Forse un canto per dare una risposta: io sono in una fase della mia vita in cui mi esprimo, riesco ad esprimere i contenuti della mia esperienza. Lo faccio come turnista, come amante e come insegnante. Ma sono anche figlio, fratello... Alle mie cose riesco a dare valore, perché nei lunghi momenti di pausa - come quello trascorso fra il 13 dicembre e il 3 febbraio - mi chiudo nella mia solitudine. Ma forse sarebbe più giusto dire: mi apro nella mia solitudine, perché sono quelli i momenti magici in cui il cuore canta. Parlo con Martina delle cose che non sono riuscito a dirle nel rapporto faccia a faccia. Parlo con i miei allievi di musica. Parlo con me stesso.

Faccio anche i conti con le mie paure. Le osservo. Le studio. Le analizzo. Ripercorro con la memoria i piccoli passi che mi hanno portato a fermarmi spaventato, anche per una piccola cosa. Questo esercizio non mi è stato insegnato da nessuno. I timidi lo sanno bene. Non fanno altro che chiedersi perché e come siano arrivati a tanto. Ad ogni fallimento, ad ogni blocco bisogna continuare a pensare. Lo facciamo subito, appena rientrati a casa, o dopo un incidente con qualcuno che abbia fermato il corso delle cose, paralizzando la lingua e il cuore.

Il subbuglio del cuore è ingorgo emotivo, rossore, immediato senso di colpa. Quando frequentavo la Scuola elementare, ricordo nitidamente episodi tutti uguali e dolorosi per me. Se qualcuno aveva rubato una merenda a un compagno e la maestra ci guardava con occhio torvo cercando di smascherare il colpevole, io arrossivo. Anche se non ero stato io. I timidi sono colpevoli. Sempre. Forse Kafka era un timido. Mi hanno detto che tutta la sua opera è attraversata dal sentimento della colpa. Addirittura avrebbe scritto di essere colpevole comunque, anche se convinto di non aver commesso alcunché. Fatte le debite proporzioni - non intendo certo paragonarmi a lui! -, si potrebbe dire che è la stessa cosa. Quante volte il timido si addossa la responsabilità di cose che non sono nate da lui?

Con Martina è un po' diverso. Lei sa di me. Mi prende in giro. E questo non sempre mi piace. Quando se ne approfitta, va a finire male. La pianto lì e me ne vado. Mi chiudo in camera e mi immergo nel suono del mio pianoforte. Continuo così la discussione con lei. Ecco, la solitudine è questo per me. Sono i momenti in cui debbo riconciliarmi con qualcuno. E lo faccio nei modi che conosco io. Il dialogo continua con una pagina di Miles Davis. Perciò dicevo: mi apro nella mia solitudine. Se Martina ha chiuso il mio cuore, in solitudine lo riapro e imparo così a fare da solo quello che sicuramente imparerà anche lei, cioè a chiudere e ad aprire.

Io sono ben nascosto per un po' in quella stanza inaccessibile con la porta spalancata in attesa. Se nessuno verrà a dire parole nuove, provvederò io, magari con una canzone di Cole Porter, perché l'amore non è sempre come una sonata di Bach. Più spesso è come una canzone. E bisogna cantare. Ingannare il tempo che passiamo a recalcitrare contro il Destino, perché si levi almeno sommessamente un canto nuovo ad ogni esitare della vita e ad ogni pausa imposta dai capricci del cuore.


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L'eco di un frammento

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Dopo le pause dell'anima, dopo la riflessione e l'indugio, occorre dire chi e cosa sia intervenuto a interrompere il corso delle cose. Come se il cuore stesso non battesse più! Possiamo invocare a pretesto del silenzio l'ingorgo dei sentimenti e delle emozioni, un interdetto, cioè un'intimazione a non procedere, addirittura a desistere, sicuramente la piega delle cose che suona come Destino e irrevocabile trascorrere del tempo.
Il 13 dicembre ci eravamo fermati perplessi di fronte a un dialogo interrotto. Il tempo che ci separa da quel giorno di dicembre è servito a riscaldare il sangue, a uscire dallo stallo in cui siamo stati chiusi.
Immaginate che una ragazza folle di miele si pari davanti a voi in una fredda sera d'inverno e che vi dica cose insensate a proposito di quello che avreste potuto fare insieme se non aveste rimandato più volte un appuntamento con lei. E immaginate ancora che chiami in causa addirittura la vostra condizione di persona impegnata sentimentalmente, sfidandovi sul terreno che credevate più sicuro. Considerate i dolci pensieri e la tensione verso un approdo improbabile perché carico di incognite e di rischi. Pensate pure di avere a che fare con una squinternata impenitente, che trascorre da una storia all'altra senza darlo a vedere, ma che magari vi racconta pure le ultime tre o quattro storie consumate allegramente. Ma tenete presente che non di una pazzerella si trattava ma di una donna, di un'austera bellezza femminile di altri tempi, che contrastava sonoramente con le chiacchiere e il gesticolare infantile. Come se quel contrasto fosse la spia di un modo di proporsi volutamente scanzonato e sincero, ma in realtà maschera di un dolore nascosto e di una pena inconfessabile.
Il pensiero va subito al compito che un maschio avverte come un imperativo morale, ma anche come un dolce che si distilla nel cuore: "consolare gli afflitti" non era un dovere di altri tempi? Perché, però, mi viene alla mente un'espressione così vieta e stanca? Di nuovo, mi ritroverò a donare sangue a fondo perduto? a procedere dimentico di me, facendomi risucchiare dal vortice di questa bellezza scomposta perché asimmetrica, diseguale, giacché l'esterno di questa donna sicuramente non corrisponde alla realtà della sua anima?
Immaginate l'insinuante ammiccare e il distratto discorrere delle cose più futili, quasi a voler generare la curiosità che si richiede per stabilire poi file di continuità... Insomma, gli ingredienti per un maledetto imbroglio c'erano tutti il 13 dicembre, ma non vorrei deludervi ora lasciandovi credere che io abbia corrisposto alle attese della donna-fanciulla in cerca di guai. Se una avvenente ventiquattrenne dall'aspetto virgineo, infatti, vi butta lì: "Ti chiederai cosa io ci faccia qui! Che cosa cerchi... Ti dirò: cerco guai!", ditemi voi se non deve suonare il campanello d'allarme della sonnecchiante coscienza, già quasi sedotta e annichilita - mi dicono che ho sempre subito il fascino femminile (come se fosse cosa originale ed esclusiva!) - dall'offerta per niente tacita di sé da parte di una donna desiderabile e seducente, che nasconde il suo cuore di fanciulla dietro la coltre spessa della spavalderia e della chiacchiera apparentemente disinteressata: come se non ce l'avesse proprio con voi! come se i guai non li cercasse con voi! State freschi a dire che al cuore non si comanda! Siete a un passo dal sì, magari appena sussurrato. Ma poi, sì a che cosa? Nessuna richiesta esplicita era stata formulata. Piuttosto, direi, un'esca era stata lanciata. E occorreva farsi pescatore di anime (in pena), magari vogliose di attaccamento casuale e occasionale, perché non è mai chiaro se le circostanze della vita ci interpellino per un concerto di Bach o per una canzone di Cole Porter! Voi mi direte: sempre musica è; sempre per gli occhi verdi di una zingara ci ritroveremo a dimenticare Dio, ma considerate un po' i miei quattro impegni, le cose faticosamente guadagnate con gli anni, Martina, le lezioni private, Tolentino, l'invincibile pudore di un maschio di altri tempi, e il gioco è fatto.
Per tutto il tempo della 'recita' che si svolgeva davanti a me non ho fatto altro che sorridere compiaciuto e lusingato, visibilmente emozionato. Ho finto di non vedere la donna che era dietro la fanciulla che giocava. Ho giocato anch'io, fino allo 'scioglimento', dopo l'affievolirsi della voce e l'attenuarsi della tensione erotica. Non avevo più voce. Non parole. Solo un sottile desiderio di un altro tempo da vivere con lei, ma con l'altra che era in lei, per fortuna ben nascosta e chiusa con serrami e lacci e porte che la rendevano inaccessibile. Solo il mio sguardo poteva agevolmente posarsi su di lei, ché la sua anima era chiaramente protesa verso di me, bocca spalancata nel grido trattenuto. Forse era amore quello che il grido non diceva.
Lungo le strade del mondo ci ritroviamo tutti talvolta, affannati e soli, a chiedere che sia balsamo e sponda una voce che pure si protende verso di noi. Magari vorremmo che quella voce si facesse abbraccio e altro ancora, che solo i nostri sogni ad occhi aperti riescono a dipingere nell'aria fredda della sera. Ma il tempo se ne porta il profumo nel severo incedere della notte. Ciò che resta è solo l'eco di un frammento. La vita è veramente altrove!


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