Al di qua dello sguardo - Elegia della vita schiva

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giovedì 21 ottobre 2010

Una radicale contingenza

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Quando è una giovane musicista a chiederti di parlare di improvvisazione, è più difficile rispondere. Se poi quel che vuole sapere è proprio cosa significhi l'espressione più difficile e nello stesso tempo più immediata - forse, la meno discussa -, non capisci se sei più ignorante tu o più insinuante lei. Perché cogli nei suoi occhi una sorta di complicità, uno sguardo insistente, come di chi vuole più di una risposta. Il pensiero corre subito alla parola 'provocazione': cerca di metterti in difficoltà, ché vuole sapere cosa significhi proprio quell'espressione che tu hai usato tante volte senza definirla mai e poi che la tua risposta sia una risposta a lei, solo a lei? Devi trovare le parole che si aspetta lei. Ti mette alla prova come maschio, come musicista, come 'maestro'. Ti innalza alla dignità di suo maestro e devi conservare il posto in cui ti ha collocato: non puoi arretrare né fingere di non aver capito. Non vuole che parli di Musica. Vuole sapere quale sia per te l'origine più lontana, la radice di una pratica musicale che si istituisce, viene eretta a radicale contingenza, appunto! Da quale regione della realtà provieni tu che prendi ad improvvisare? Cosa ti precede? E cosa precede quello che poi 'dirai' in musica? Di più. Come arriva ad essere 'radicale' la contingenza di cui parli e che tipo di 'contingenza' è quella che si istituisce dentro la pratica? e che significa 'pratica'? E in che modo la tua pratica si distingue da quella in cui si produrrebbe lei, che è una donna? C'è un modo femminile di 'esibirsi' in un'improvvisazione musicale? (Mi è venuto in mente il nome di Rita Marcotulli, ma può bastare un nome per giustificare una 'teoria', addirittura dare fondamento all'idea che ci sia un modo specificamente femminile di fare improvvisazione?)

E' andata proprio così. Mi ha fatto tutte queste domande e forse altre ancora. Queste sono le più importanti, almeno per me. Sicuramente, non avrò risposto a tutte, a giudicare dal sorriso ironico con cui si è allontanata alla fine della lezione.

Per me, si tratta di arrivare all'istante eterno in cui tutto è in ordine, dentro più che fuori di me. E' facile disporre gli strumenti e le persone nella posizione desiderata, dopo aver creato l'atmosfera giusta, ma se non siamo mai soddisfatti si scopre presto che sono solo pretesti che accampiamo quando non c'è ordine dentro. Non siamo pronti. Ecco un altro 'segreto' di Marco Serrani svelato! Sarò timido quanto volete, ma provateci voi a produrre eternità nel tempo! Occorre fuoco e nello stesso tempo una mente lucida, che occorre per vedere quello che si staglia lì davanti a te...

La pratica dell'improvvisazione musicale è un po' come un viaggio. [...] Non dobbiamo sapere necessariamente quanto durerà il viaggio, né dove stiamo andando. Può succedere di non penetrare in nessun territorio, o che esso si riveli una tetra palude che nessuno desiderererà visitare di nuovo; ma quando ci appariranno, sia pur di sfuggita, nuovi splendidi paesaggi, il tutto sarà ancor più sorprendente perché inatteso. (M.VITALI, Alla ricerca di un suono condiviso: l'improvvisazione musicale tra educazione e formazione, Franco Angeli 2004, p.9)

L'improvvisazione musicale è dunque esperimento di identità. Il pensiero musicale dell'improvvisatore mette al centro del proprio universo l'esperienza che connette un soggetto - se stesso, la propria musicalità - ad un oggetto - il suono - in una storia vissuta, emozionata, ragionata, ma che solo in parte è conosciuta.

La mia allieva ha particolarmente apprezzato questi accenti critici, è riuscita a sentirne la sincerità profonda. Forse si aspettava che io le dicessi: ci vuole temperamento, scienza e robusta conoscenza degli strumenti... Le ho parlato, invece, di un'identità malcerta, perfino gracile. Io sono convinto che si cresce assieme alla propria musica. Vi ho rivelato un altro 'segreto' di Marco Serrani! Timidezza? Siete ancora convinti che un modo di condursi come il mio sia segno di povertà, di mancanza?
Anche ritrovarsi di fronte a una giovane musicista, senza poter dire con certezza quello che nasconde la sua anima è impresa facile? Non parlo del rispetto, che comunque le è dovuto, altrimenti non sarei un uomo degno di questo nome e lei non sarebbe un'allieva che si è affidata a me... Voglio dire che rispetto ci vuole, ma ci vuole anche contatto, trasporto, entusiasmo. E come fare queste cose senza cadere nell'equivoco, senza cioè che lei pensi a un interessamento che va oltre la musica?
Tempo fa scrissi "un'esistenza sospesa?". Ecco, questi sono i momenti in cui si potrebbe dubitare di me, di quello che sto facendo. In realtà, c'è sempre da trovare una misura nei rapporti umani. Io sto al di qua. Preferisco perdere preziose occasioni per stare in estasi di fronte ad una donna, perché non si tratta della mia donna e poi perché credo che solo la musica debba legarci. Un'allieva è un'allieva. E' già una sfida la richiesta che mi ha lanciato, quando mi ha chiesto cosa pensi di una donna che improvvisa. Capirete l'emozione provata, se pensate al fatto che c'è chi crede che le donne non abbiano un'anima, che siano solo impulso e desiderio... Insomma, dovrei avventurarmi nel suo territorio: affermare che lei possiede un'anima, che io vedo ed apprezzo... Capite dov'è la sfida? Sono chiamato in causa. E' come se mi stesse dicendo: prova a dire che non sono una donna, che non ho sensibilità... E allora, se non sono un pezzo di legno, prova a dire invece cosa provi tu quando ti ritrovi davanti a me, che sono donna... Certo, parlare di musica con lei è un'emozione sconosciuta. Anche questo 'grado zero' della comunicazione tra di noi mi scaraventa al centro della terra incognita che chiamiamo 'radicale contingenza' della nostra pratica.

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