Al di qua dello sguardo - Elegia della vita schiva

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lunedì 1 novembre 2010

Elogio dell'imperfezione

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Vi avevo già parlato di un mio amico che si è laureato a Bologna in Estetica con una tesi sull'improvvisazione nel cinema e in musica. C'è un paragrafo di quel testo intitolato Per un'estetica dell'imperfezione che voglio riproporvi integralmente, con il suo consenso. Questo post è dedicato ai miei allievi, perché non pensino mai che bisogna mirare alla perfezione a tutti i costi.

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Se improvvisare significa assumere rischi e sorprendere e spingersi verso luoghi musicalmente ignoti, e se è parte dell’assumere rischi il fatto che alcuni aspetti del risultato possano apparire poco felici, allora bisognerà ricorrere a un criterio di valutazione fondato sull’estetica dell’imperfezione.

Vi è una bellezza anche dell’incompiuto, ed è questa bellezza grezza che può essere assunta come criterio di valutazione del jazz improvvisato. Adottando l’estetica dell’imperfezione […] non si valuta l’improvvisazione come prodotto, ma come relazione fra processo e prodotto. Per questo si possono apprezzare anche il coraggio e il rischio connesso agli sforzi fatti, prestando riconoscimento alla sperimentazione e alla capacità di allargare l’orizzonte di riferimento. Non si tratta ovviamente di un’apologia dell’errore o della licenza di fallire. Si tratta del riconoscimento della circostanza che forme di imperfezione spesso riscattate hanno luogo quando i musicisti si impegnano in un genuino tentativo di improvvisare, senza cedere alla tentazione di appoggiarsi a cliché. Imperfezioni, peraltro, dovute non a pigrizia o ad un’esecuzione maldestra, ma al coinvolgimento in un percorso sperimentale e di ricerca. (DAVIDE SPARTI, Suoni inauditi: l'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana, IL MULINO 2005, p.200)

Miles Davis è famoso fra i critici per le sue note stonate o mancate. Dovremmo dunque concludere che egli è un trombettista tecnicamente limitato e soprattutto poco accurato? Forse sì, se dovessimo analizzarlo con gli strumenti della musicologia tradizionale. In realtà, più verosimilmente, egli ha accettato di correre dei rischi che molti altri musicisti hanno accuratamente evitato di affrontare:

non è che Davis volesse commettere degli errori, o non fosse disposto ad evitarli: idealmente avrebbe voluto suonare sempre al limite e non sbagliare mai. In pratica, si è avvicinato più di altri a quel limite ed ha accettato gli inevitabili passi falsi. In questo senso egli non presenta al proprio uditorio un prodotto levigato e degno di ammirazione per il suo rigore, ma un complesso processo di ricerca e di lotta con la musica. Davis non offre dei patterns musicali da trascrivere, estrarre e riprodurre a casa propria. Ma è fondamentale apprezzare il fatto che Davis si sia esposto continuamente, rendendo il suonare la tromba ancora più difficile e rischioso di quello che è […]. (DAVIDE SPARTI, Suoni inauditi: l'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana, IL MULINO 2005, p.201)
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