Al di qua dello sguardo - Elegia della vita schiva

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martedì 31 agosto 2010

Ineffabile come Dio

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Non è necessario che ci sia tutto intorno chissà quale ambiente magico, quale atmosfera ideale perché si dia jam session! Servono pochi ingredienti, ma tanta storia personale. E' indispensabile aver dormito a lungo con il proprio strumento, magari abbracciati a lui, nella penombra della propria stanza, al riparo da occhi indiscreti. Per poter tentare, anche in piena notte, un accordo. Le ferite dell'anima sanguinano particolarmente a certe ore.

C'è da esprimere un mondo intero, la foresta dei simboli personali. E quando dico esprimere alludo al fondo di ineffabile che sostiene tutti i moti dell'anima. Non c'è mai un disegno chiaro che si stagli lì davanti a noi, una figura distinta dalle altre a significare una chiara traccia per la voce.

Bisogna tentare la tastiera. Trovare le parole. Accostare frasi e periodi e allungare lo sguardo oltre la modulazione felice dei suoni inauditi, come li chiama Sparti. Si ricerca un insieme coerente e compatto che dia senso ai giorni, il nitore delle corde più e più volte provate dal liutaio per noi.

Abbiamo accordato il clavicembalo e tutti gli strumenti a corda. Le luci sempre basse, per non lasciar disperdere l'intesa tra di noi. E poi abbiamo provato. Quello che è accaduto lo racconteremo poi. Ora c'è da comprendere per quali vie si sia trovata l'intesa a due, a tre, a quattro... Per tentare ancora insieme di intonare un coro per voce sola. Da due, da tre, da quattro... non importa quanto ampio l'abbraccio approntato: si tratta di dire insieme.

Io entro quando è ora del mio turno, per sostituire il secondo, il terzo o il quarto... o perché qualcuno crede in me: c'è da celebrare un rito solenne, una sconfinata preghiera alla terra, perché il suo canto si levi monotono per sillabe d'acqua, a significare che non sono condannato a restare confuso in eterno.

Del lavoro precedente qualcosa andrà perduto, inevitabilmente. Ma quando la voce corale si leverà alta e vibrata a dire l'eterno succedersi dei sogni e delle illusioni, una sola promessa sarà accolta e restituita: la felicità dell'opera, lungamente cercata e tentata, ed ora presente nell'aria, nuvola e anima, soffio e sospiro.


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La vita come scrittura interminabile

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La cosa più grande del mondo è saper stare con se stessi. (Michel De Montaigne)

Si fa presto a dire che uno è timido. Come se fosse 'imbranato' - ai ragazzi di oggi piace dire così - e non fosse capace di stare in mezzo alla gente! A me non piace isolarmi dal mondo, se questo significa non uscire di casa ed evitare i contatti umani.

Preferirei parlare di vita schiva, che è tutt'altra cosa. Non si tratta di entrare nella vita in punta di piedi, con timore reverenziale per gli altri, per tutti gli altri. Ho anch'io la mia lista di persone antipatiche, che evito accuratamente per non guastarmi la giornata: gli invadenti e i presuntuosi, tutti quelli che sanno tutto di te, senza aver parlato mai con te, o che sanno magari quello che hanno sentito da altri.

Ho un grande rispetto della vita. E questo significa che curo i rapporti faccia a faccia. Credo soltanto nelle relazioni dirette. Viaggio in bicicletta proprio per questo motivo. Perché la mia vita è scandita da persone, non da appuntamenti, eventi - come si dice oggi - chiacchiere. Ecco, forse questo mi farà apparire 'diverso'.

Ma che diverso, poi? Mi sembra di essere così normale. Avete qualcosa da ridire sulle biciclette? So anche parcheggiare la mia e procedere a piedi. Si potrebbe dire che oscillo tra due stili di vita che riesco a comprendere, ad abbracciare in una sola volta: una 'filosofia' del camminare e la vita schiva. Avrete capito che Duccio Demetrio è uno dei miei Maestri. A lui debbo la scoperta dell'idea di 'raccontarsi', che non è la semplice autobiografia che si scrive alla fine della propria vita, ma gli debbo anche un'idea della maturazione personale che valorizza l'immaturità. Se ci pensate bene, qual è oggi la meta dell'età adulta come delle età ulteriori? Ma ne riparleremo.

A me piace questo raccontarmi a poco a poco, svelando magari piccoli segreti che non cambieranno di certo le cose intorno a me: ci vuole altro per 'mettere in discussione' un'esistenza, per scuoterla o addirittura metterla in pericolo. Che sappiate di me, ad esempio, che sono timido cosa cambia? Ci guadagno, forse, perché non si dica di me quello che non è. Scoprirete assieme a me il sentimento e le virtù della timidezza.


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domenica 29 agosto 2010

Le cose vanno viste da vicino

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C'è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo.

Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all'intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all'intensità dell'oblio. MILAN KUNDERA, La lentezza, pag.49

Alcuni anni fa ho assistito a una Mostra di pittura di un giovane amico, a Tolentino, che esponeva quadri fatti tutti con inchiostro di china. Il titolo prescelto era Le cose vanno viste da vicino. Inizialmente, mi sembrò tutto molto ingenuo, dalla china al titolo della mostra... Successivamente, ho ripensato alle sole parole da lui spese per dire quello che intendeva rappresentare, quelle, appunto, usate per il titolo. Mi risultarono stranamente familiari. Ma subito capii.

Anch'io penso che non si debba considerare troppo da lontano e in fretta quello che ci accade. Le cose vicine, poi, ci riguardano, potrebbero appartenerci, parlano a noi. Quando si dice 'memoria' bisognerebbe aggiungere 'identità'. Identità e memoria. 'Fermare' le cose vuol dire adeguare il proprio ritmo a quello con cui le cose scorrono, passano. Cerchiamo di fermare la vita, per fissare i suoi significati, per assegnare ad ogni cosa un significato per noi.

Se penso ai miei allievi, alle lezioni di Musica, ma anche al lavoro di turnista, al ritmo di una piccola città come Tolentino, confesso che tutto mi sembra adeguato alla mia misura. Qui non mi sento solo a casa. Non riesco solo a realizzarmi negli affetti, nel lavoro, nell'attività che più mi preme. Qui riesco ad esprimermi. Do voce ai sogni e alle illusioni, cercando di realizzare i primi e di tenere a bada le seconde.

Con le illusioni bisogna fare i conti. Io ci riesco se procedo affrontando le mie cose ad una ad una. Non mettetemi fretta. Martina ci ha provato, ma le ho fatto capire che sono fatto così: debbo vederci chiaro nelle cose. Non prendo decisioni affrettate. La vita richiede prudenza e pazienza. Ho sbagliato già, anche troppo per i miei gusti. Ora voglio ponderare tutto.

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sabato 28 agosto 2010

Le sue voci

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Io sento le sue voci se tendo l'orecchio ad ascoltarne i profumi salire al cielo e se scruto l'orizzonte del lago tutt'intorno, dalla casa di Paolo, un 'vecchio' amico di Como. Nei mesi di marzo e poi aprile e maggio, da giugno a settembre ed ottobre tu puoi vedere il giallo, il verde, il viola, il bianco, il rosso, il marrone, il rosso dell'autunno, e dappertutto una sola voce che chiama te: è il Genio dei luoghi, che ti conduce al sacro e alle sue arcane forze.

Posso schiantarmi nell'attesa della mia donna e risalire la corrente di un antico fiume nella forra tra i grandi sassi che ha scolpito il tempo, pensando a lei, senza mai dire: "Maledetto il giorno che ti ho incontrata, perché hai messo il fuoco e il vento nel mio cuore!". So aspettare i dolci giorni e le pause della vita vissute in armonia accanto a lei.

Le altre voci, che la precedono, mi aiutano a riconciliarmi con il tempo mondano dei dinieghi e degli astratti furori, per riuscire infine a sentirmi sempre di nuovo cielo, quando lei mi innalza, e terra, quando mi chiama a sé. Io non sono un re neghittoso, che se ne sta altero sulla riva del lago ad aspettare non so cosa. Non verrà nessuno a lenire l'inutile dolore di chi si oppone alla vita e alle sue oscure leggi. Qui bisogna consistere, paghi del buon vivere, contenti dell'onesto vino e delle sere d'estate, magari trascorse con lei a sentire un concerto per voce sola, perché solo così si acquietano le inquietudini del cuore e riesci a sentire per intero tutte le voci della sera.

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Parlami!

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William Goode

A tutto il paese senza dubbio poteva sembrare
che io andassi di qua e di là senza una direzione.
Ma qui lungo il fiume al crepuscolo
puoi vedere i pipistrelli che volano a zig-zag
qua e là - devono volare in quel modo
per procurarsi il cibo.
E se ti è mai capitato di perdere la strada di notte
nel bosco profondo vicino a Miller’s Ford,
e hai seguito incerto ora una strada ora un’altra
ovunque si vedeva brillare la luce della Via Lattea,
tentando di trovare il sentiero,
dovresti allora capire che io cercavo la via
con ardente zelo, e che tutto il mio peregrinare
non era un peregrinare senza meta.

EDGAR LEE MASTERS
Sentirsi immaturi e sentirselo dire spesso, come sapere di avere un'identità non ancora ben definita o, forse, non averne affatto una, non è piacevole.

Mi chiedo spesso che cosa traspaia di me, se Martina vede un uomo o soltanto qualcosa di gradevole e passabile, un carattere accettabile e - perdonatemi la franchezza! - un buon partito, come si diceva una volta. Ad ogni maschio accade di pensare che i lunghi silenzi, le richieste accompagnate da dinieghi, la riluttanza a parlare in una donna possano nascondere un tiepido sentire. Che l'oggetto del loro amore non sia poi così entusiasmante. Siamo felici io e lei. Nessuna ombra è mai intervenuta a turbare i giorni. Lei è desiderabile e avvenente. Ma a me piace sentirmi dire tutti i giorni che ci sono e che ho un significato. E voglio conoscere quel significato.

Non venite a parlarmi di insicurezza. Non ho bisogno dei suoi riconoscimenti per esistere. Non di riconoscimenti sociali si tratta qui. Piuttosto, del calore che dura, che è emanato in continuazione da un cuore caldo. E lei è così. Calda e affettuosa. Ma quando intervengono i silenzi, che cosa pensare?

Del silenzio delle donne hanno parlato perfino i filosofi. Evidentemente, esso è stato rivestito di un'aura che secondo me non possiede. Io credo che ci siano persone che più semplicemente non amino parlare, che sentono e basta. Questo è il dato della mia esperienza. L'amore è un sentire che non ha bisogno di parole? Paradossalmente, proprio io che vivo la mia vita schiva chiedo questo. Martina, parlami!

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«Non posso sopportare la pioggia!»

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Ci sarà davvero un "mattino"?
C'è una cosa come il "Giorno"?
Potrei vederlo dai monti
Se fossi alta come loro?
Ha piedi simili a Ninfee?
Ha penne come un Uccello?
Proviene da famose regioni
Di cui non ho mai udito?

Oh qualche Studioso! Oh qualche Marinaio!
Oh qualche Sapiente dai cieli!
Vi prego di dire alla piccola Pellegrina
Dove si trova il luogo chiamato "mattino"!

EMILY DICKINSON

[
Cerchiamo sempre un "mattino", un risveglio che porti luce e rinascita, ma quasi sempre la nostra ricerca non ha effetto e ci chiediamo allora se quel mattino esiste davvero e, magari, se siamo noi a non saperlo vedere, perché non riusciamo a spingere lo sguardo al di là di ciò che lo nasconde.
]

Io sento insistente la voce dei vecchi forniti di esperienza, quelli di una volta, che avevano sempre qualcosa da raccontare ed erano convinti che la vita fosse tutta lì, nelle loro storie. Ci portiamo ancora dietro, o forse no!, l'idea che l'esperienza sia quella lì, che uno come me, perché giovane, non abbia esperienza, poco o nulla da raccontare. Ma una sognante Martina e Musica tutto il giorno nelle orecchie e nel cuore vi sembrano poca cosa? E credete che io abbia accumulato fin qui solo tre o quattro storie da raccontare verso la sera della mia vita a un giovane distratto, che magari si porterà la sua Martina nel cuore e starà sognando un concerto su un grande prato con mille come lui?

Osservo tutta la vita scorrere intorno a me, ogni giorno, mai dimentico di me, anzi, assorto e partecipe, incuriosito delle storie, delle mille storie che hanno da raccontare muti i viandanti che incrociamo e che si portano appesa alle grucce del misero corpo un'anima che sogna e che canta.

Cosa credete, che non veda, che non senta! C'è molto da sentire. Basterebbe seguire per strada, o uscendo da un supermercato, qualcuno che abbia iniziato a raccontare, e pedinarlo fino alla fine della storia. Dalle finestre basse delle case di Tolentino puoi percepire distintamente cosa accada nelle migliori famiglie del quartiere. E al telefono di casa, quanti racconti, quanti segreti inconfessabili sciamano nell'aria, specialmente a sera!

Ma di tutte le storie rubate fin qui quale credete che mi piacerebbe di più raccontare? La mia. Carpita dai sogni agitati e dalle chiare visioni dell'alba, si dipana davanti a me, in questo intervallo di fine estate, mentre si preparano cose nuove, come un languido lamento, un abbandono ai dolci ricordi di un'infanzia felice e di una giovinezza nota a pochi, se non a lei.
Ma non affiorano pomeriggi assolati e alberi in fiore né dialoghi interrotti dall'affannato affabulare.

Piuttosto dei volti. Non le facce. Le guance. I capelli.
Le voci. L'ansito breve di mia madre. La voce roca di mio padre. Il campanello di una bicicletta. I freddi inverni. La casa fredda. Le soste interminabili ai vetri della finestra. Fuori piove. Risuona ancora nell'anima il tumulto del cuore, che precorre gli eventi e teme il passo cadenzato dei morti che attraversano la città. Io speravo sempre che non passassero, a ricordare il vento che si abbatte sulla vegetazione indifesa e sconquassa i coppi e scoperchia le case. C'erano morti una volta che procedevano accompagnati da una musica greve, che opprimeva l'anima. Il mio cuore fanciullo come poteva amare la pioggia e il vento e non temere la voce roca di mio padre, che sonava rimprovero, mentre mia madre accorata ci richiamava ai nostri piccoli doveri, pronta a proteggerci dalle nostre paure, consapevole dell'imminente primavera?

Noi tutti sapevamo che acqua e vento e sole e tutte le stagioni, scandite sempre uguali, dovevano passare e avvolgere i nostri pensieri e le nostre notti, a volte insonni, perché avevamo assistito allo spettacolo della morte di un vicino e non riuscivamo a non pensare che potesse venire a bussare alla nostra porta. E questo temevamo.

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venerdì 27 agosto 2010

Un profondo sentire.

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Muovere verso l’altro significa anche fare i conti con persone che non ci corrisponderanno o che appariranno sulla scena con caratteristiche perturbanti: il modo di mostrarsi con la propria sensibilità è già rivelatore. Siamo portati ingenuamente a pensare che si debba essere profondi o che si sia profondi per natura e che si possa decidere se farsi coinvolgere emotivamente o no in una relazione umana. E ci convinciamo crescendo che da alcune figure di rilievo - i nostri genitori, ad esempio - non possa venire altro che riconoscimento ed affetto: difficilmente, arriveremo a comprendere, ad esempio, che una madre possa non provare alcun sentimento per noi.

Certamente, potremo mantenere una ‘distanza’ grande, riservando all’altro un interesse solo formale oppure ostentare disinteresse. Ne faremo sempre una questione di sensibilità personale, di personale capacità di sentire l’altro e di mostrare di possedere una sensibilità viva… In realtà, quello che mettiamo in campo è il nostro modo di orientarci verso un valore: noi attribuiamo all’altro un valore da cui dipenderà il ‘grado’ dell’affettività che esprimeremo nei suoi confronti. Gli affetti che proveremo traspariranno, in qualche misura.

Riusciremo anche a dissimularli, se necessario, più o meno abilmente. Chi non ha nascosto, infatti, anche per anni un sentimento che non poteva in nessun modo essere dichiarato? Può darsi anche il fatto che procediamo a lungo inconsapevolmente, come se nulla stesse accadendo in noi. Un accidente improvviso o un brusco risveglio provocato ad arte da qualcuno ci rivelerà a noi stessi. Avvertiremo chiaramente di essere stati colpiti da una presenza, di essere ormai affetti da interesse... Ci sentiremo affezionati a quella persona. Essa si distinguerà tra le altre cose del mondo. Avrà un significato per noi e un valore.

Non accade poi sempre così, quando si tratti di persone appartenenti alla schiera familiare allargata?

A insensibilità, anaffettività, superficialità del sentire non dovremo opporre profondità del sentire? e questa profondità dovremo intendere come espressione di una grande sensibilità personale o come capacità di attivare gli strati profondi della sensibilità propria di ogni persona? E che cos'è essere profondi se non avanzare nella conoscenza dell'altro, arricchendo la relazione di sempre nuovi significati e nuove occasioni di contatto e di scambio emotivo? La metafora spaziale non serve. Profondità è questo: non rinvia a qualcosa che stia più a fondo. Non è stato Pavese a dire ne Il mestiere di vivere: «Amore è desiderio di conoscenza»?

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giovedì 26 agosto 2010

Verso un sapere dell'anima

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Canto di donna che si sa non vista
dietro le chiuse imposte, voce roca,
di languenti abbandoni e d'improvvisi
brividi scorsa, di vuote parole
fatta, ch'io non discerno.
O voce assorta, procellosa e dolce,
folta di sogni,
quale rapiva i marinai in mezzo
al mare, un tempo, canto di sirena.
Voce del desiderio, che non sa
se vuole o teme, ed altra non ridice
cosa che sé, che il suo buio, tremante
amore. Come te l'accesa carne
parla talora, e ascolta
sé stupefatta esistere.

Sergio Solmi (da: Ritorno a una città], 1926
L'incanto di una donna - è noto a tutti - risiede per noi nei vezzi, nelle grazie, nelle molli movenze, nei languidi abbandoni, ma anche, nondimeno, nell'incedere misurato e nello sguardo, nella voce, nel canto. E' singolare, però, il fatto che una donna si esprima così:
«Acc! Perdo sempre le tue chiamate! ;-) sarà il mio inconscio che non vuole farti sentire la mia voce? Mah! Le donne! Hanno sempre questa paura del giudizio di un uomo! :-/ forse, non tutte... Mica son tutte tonte come me! Giuliana».
I segni diacritici oggi tanto di moda [ ;-) e :-/ ] stanno a testimoniare per noi la giovane età di questa donna, ma più singolare di tutto è il pudore di cui si riveste il suo esitare a rispondere al telefono e la confessione poi di cosa lo impedisce: il timore di far sentire la propria voce!

Nell'età della spudoratezza mi sembra questo il trionfo della femminilità, la conferma del fatto che le donne non sono scomparse: in mezzo a tanto agitarsi scomposto sulla scena - donne seminude, ma, a volte, quel che è peggio!, completamente vestite, che vomitano emozioni e sentimenti con un furore tragico, quasi volessero denudare l'anima, in nome di non so quale verità da affermare! - sento una voce che dice di non poter parlare, per paura di sentire giudicata proprio la voce. Di più, 'scoperta', come se quanto di più intimo una donna possiede fosse 'nascosto' in ciò che per lo più passa inosservato, cioè lo sguardo, la voce, il passo. Ed è ciò che questa donna teme di esibire. Lei teme di essere finalmente 'compresa' da uno sguardo che sa penetrante, che ella teme. Lei sente che la sua anima sarebbe come messa a nudo, se lasciasse alle orecchie 'indiscrete' del suo interlocutore la possibilità di sentire, quasi di toccare quel che proviene dal fondo dell'anima.

Mi sembra una bella vendetta della Storia questo forte sentire. Si meritano una risata liberatoria tutte le 'donne' che si denudano per noi e che si danno in pasto ai fotografi, convinte di mostrare qualcosa, quando a noi pare di non vedere quasi nulla. Il tragico di questa commedia è nel fatto che forse, essendo 'senz'anima', non hanno altro da mostrare!


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Il divenire di un'Occasione


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Nelle cose d'amore, come in ogni relazione significativa, siamo abituati a pensare che un momento particolare, un appuntamento, un incontro fortuito possano essere l'occasione propizia: investiamo emotivamente in quell'evento - come si usa dire talvolta a sproposito oggi -, come se il seguito dei giorni dovesse dipendere da come saranno andate le cose in quel momento particolare, in quell'appuntamento, in quell'incontro fortuito. E ci comportiamo con malcelato affanno, perché temiamo di perdere un'opportunità, che la persona a cui teniamo tanto possa sfuggirci, che, appunto, non riusciamo a cogliere l'occasione...

Non ci basta poi di scoprire che nulla è andato perduto, che, magari, anche da un infortunio nella comunicazione sarà derivata la nascita di una simpatia nei nostri confronti che non ha tratto origine da abili mosse e contromosse: continuiamo a pensare che le occasioni vanno 'colte' e 'sfruttate', che bisogna agire 'al momento opportuno' e che certe occasioni 'non si ripresentano più'.

Più interessante osservare come un accorto ragionare con l'altro, una ricerca di intese sul significato di cose comuni, su circostanze che aiutano a farci conoscere sono, semplicemente, all'origine di un interesse nell'altro che è destinato a crescere, se l'altro opererà allo stesso modo, cioè ragionerà prudentemente con noi, cercando intese sul significato di cose comuni, su circostanze che aiutano a conoscerlo...

Insomma, io chiamerei Occasione l'incontro fortuito con una persona in cui uno dei due interlocutori cercherà un varco per favorire il prosieguo della comunicazione, in forme inizialmente disinteressate e innocenti, per far acquistare allo scambio di idee e impressioni un sapore via via più 'intimo', per far nascere una qualche intesa a cui aggrapparsi in seguito e su cui costruire ancora. E' così che si favorisce un incontro.

Io parlerei, allora, del divenire di un'Occasione: questa non sarà data dal momento iniziale, ma dall'approdo, dal costituirsi una lunga serie di gesti e discorsi come pretesto per cercarsi ancora e per non perdersi di vista, per mantenere un contatto che non faticheremo a riconoscere, alla fine, come interessante. Non avremo più timore, allora, di dire che la persona che cerchiamo è interessante, che è piacevole la conversazione con lei, che non vorremmo interrompere una comunicazione che ci procura piacere e serenità...

Io rinuncerei al feticismo del primo giorno, di un rendez-vous lungamente atteso, di appuntamenti con il Destino... L'occasione sarà allora la persona che si avvia a prendere forma, cioè ad essere nitidamente percepita nei suoi contorni, nei significati che progressivamente andrà assumendo per noi. Il contatto acquisterà nel tempo il sapore forte di un'emozione fatta di continui e reciproci riconoscimenti. Si potrà parlare di un incontro.

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lunedì 23 agosto 2010

Prima persona singolare

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Ciò che pregavi con amore,
che come cosa sacra custodivi,
il destino alle vane ciance umane
ha abbandonato per ludibrio.

La folla entrò, la folla irruppe
entro il sacrario dell'anima tua,
e di misteri e sacrifici ad essa
aperti tu arrossisti tuo malgrado.

Ah, fosse mai che le ali vive
dell'anima librata sulla folla
potessero salvarla dall'assalto
dell'immortale volgarità umana!

FËDOR TJUTCEV

Solitamente ricorriamo alla terza persona singolare. Preferiamo il registro impersonale, per dare vigore logico alle nostre parole. Ci riferiamo così al mondo, alle cose del mondo, all’esperienza altrui; e ci rivolgiamo al mondo, che eleggiamo a nostro destinatario, interlocutore ideale del nostro dire.

Costruire questo spazio non è facile. Si tratta di tenere insieme direzioni diverse: verso me, verso gli altri, verso il mondo.
Trattare la materia dell'esistenza come un oggetto da analizzare, per indagarne il senso e per restituire poi un'immagine credibile delle mosse della ragione, degli scarti del linguaggio, dei passaggi da una condizione all'altra...
Cercare volti non è facile, a partire da quelli noti. La mia Martina, per esempio, dov'è? Mi aspettavo che sarebbe intervenuta con qualche Commento a questo mio mattutino elucubrare solitario. E mio fratello Dario? E tutti gli altri? Inizialmente, si pensa che accorreranno folle a leggere e che i nuovi lettori diano un cenno della loro presenza e del loro affetto. 'Sentirsi dire' dal 'sistema' che 'passano' trenta o cinquanta lettori al giorno potrebbe far piacere, se fosse possibile dare un nome e un volto a qualcuno e ritrovarsi a pensare che ci sono amici tra quegli invisibili viandanti.
Cercare gli altri è come sapere già a chi si parla, per chi si scrive. Ma, come ha chiarito efficacemente, e per sempre dico io, Roland Barthes nei suoi famosi Frammenti di un discorso amoroso, «è dunque un innamorato che parla e che dice:».
E' un soggetto solitario che parla, perché di espressione (di sé, soprattutto) si tratta. Egli cerca sé, cercando gli altri. Tra le pieghe dell'anima si scontra spesso con degli 'inconfessabili': debolezze, viltà, compromessi consumati in silenzio, amori mai nati, esitazioni, affanni... Si potrebbe dire che il nostro nucleo interiore sia un Inconfessabile. Sicuramente, ci apriremo, racconteremo, descriveremo, spiegheremo... Con voce ferma giureremo di essere sinceri, che saremo fedeli alla realtà, che non idealizzeremo né inventeremo storie verosimili per accrescere il nostro significato. Ma a che varrà giurare? Noi non diremo mai (tutta) la verità. E come potrebbe essere altrimenti? Certo, io continuerò a scrivere. Ma che ne sarà dell'aura che si crea quando mi ritrovo sotto lo sguardo indagatore di lei, che mette a nudo la mia anima, come se volesse scardinare, sradicare, tutto illuminare della luce radente del suo sguardo penetrante?

A me piace dire con Hofmannsthal che «la verità è il tono di un incontro». Non la fissità di uno sguardo che tutto oggettiva, che determina oggettivamente circostanze, darà ragione di me e del mio incerto errare. Non nacqui pellegrino, con una meta certa, sicuro dei miei passi. Procedere si deve. Questo lo so. Apparentemente il mio è un esitare. In realtà, io sono impegnato a costruire la mappa del territorio. Non vi sembra che si stia delineando uno spazio linguistico in cui le cose prendono lentamente forma? Provate a mettere insieme i miei frammenti e ditemi se il mio è un errare senza meta e se non abbia un senso stare qui oggi a lamentare questo mio dire - come ieri - in prima persona a te che mi ascolti. Ma che ne sarebbe di te, se io non ti parlassi e se non accennassi così facendo al tuo balbo parlare, ai tuoi incerti passi, al tuo apparentemente vano errare?

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domenica 22 agosto 2010

Un centro di gravità permanente

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I legami fra un essere e noi non esistono che nel nostro pensiero. L'affievolirsi della memoria li allenta. [...] E' da soli che esistiamo. L’uomo è l’essere che non può uscire da sé, che non conosce gli altri se non in sé; e, se dice il contrario, mente. - MARCEL PROUST

All'obiezione facile che siamo capaci di identificarci con altri, provare simpatia, entrare in empatia, è altrettanto facile rispondere: tutti gli stati d'animo, gli stati di corpo, i sentimenti e le passioni indicano modificazioni di nostri stati di coscienza, che non sono altro che nostre modificazioni più o meno durevoli. Nascono in noi e da noi. Se la sorgente, l'occasione può essere esterna, i miei sentimenti sono solo miei, ne sono interamente 'responsabile'.
Anche il piacere e il benessere che procuriamo agli altri è remunerativo per noi: accresce il nostro benessere. Si potrebbe dire che è quasi un'ovvietà, se non si corresse il rischio di apparire sbrigativi.

Il timido impara nel tempo ad essere sempre meno timido, quando scopre e comprende e accetta l'idea che è impossibile che gli altri leggano i nostri pensieri. Se in questo momento ho paura, sembra che non se ne stia accorgendo nessuno. Gli altri non sanno 'nulla' di me, se non quello che lascerò trasparire e che comunicherò verbalmente. Confido sempre nella loro distrazione. Chi mi ama avvertirà sempre i miei cambiamenti.

Espressioni estreme:

Non esiste rapporto sessuale (Jacques Lacan).

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Gli altri sono troppi, per me.
Ho un cuore eremita.
Sono
impastata di silenzio e di vento.
Sono antica.
Mi pento ogni volta che vado
lontano dal mio stare lento
nella velocità della sera...

MARIANGELA GUALTIERI

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'Ubi consistam' è espressione latina che significa "dove io possa stare, consistere, restare, stare sicuro".
È il 'centro di gravità permanente' di Battiato.
Identità.
Equilibrio.
Ci rendiamo conto di aver raggiunto il 'compimento' della crescita personale - che l'edificio della personalità sia al culmine, che tutte le facoltà superiori sono ormai 'mature' - quando ci guardiamo alle spalle e ci sembra, per confronto, di essere uguali a quello che eravamo un anno fa.
Ma, soprattutto, ci avverte che un equilibrio è stato raggiunto il fatto che la linea che ci separa dagli altri non è più seriamente insidiata da incursioni provenienti dall'esterno né da nostri 'sbilanciamenti' verso l'esterno. Siamo 'in pace'.

E' solo quando interviene Eros che gli equilibri faticosamente costruiti vacillano. E che ne è di noi, allora? Cosa diremo dell'ambiente interno e di quello esterno?

«Sono sempre i nostri muri quelli contro cui urtiamo e su cui proiettiamo la nostra immagine del mondo, sia che cerchiamo di amplificare il nostro spazio, sia che vi accatastiamo i nostri beni.»
«Solo chi rimane completamente se stesso si presta alla lunga a venire amato, perché solo così, nella sua pienezza vitale, può simbolizzare per l’altro la vita, essere avvertito come una potenza di essa. Non vi è errore più grande nell’amore dell’adattarsi timorosamente l’uno all’altro e di uniformarsi a vicenda…».
«Un eterno rimanere estranei nell’eterna vicinanza è dunque il segno più pertinente e inalienabile di ogni amore in quanto tale: …non solo nel disprezzo o nell’amore non ricambiato, infatti, ma dappertutto, ovunque dove ci si ama, l’uno sfiora solo l’altro lasciandolo poi a se stesso. E’ sempre una stella irraggiungibile che noi amiamo, e ogni amore è sempre nella sua profonda essenza una segreta tragedia, ma proprio per il fatto di esserlo riesce ad avere effetti così potentemente produttivi».
LOU ANDREAS SALOME’, Riflessioni sull’amore (1900)

Qualche millennio di Filosofia e nessuna educazione sentimentale diretta ed esplicita ci hanno convinti del fatto che bisogna 'sterilizzare' le proprie emozioni, mettere sotto controllo passioni e impulsi irrefrenabili... Come se fosse possibile! Ma quando mai si raggiunge un equilibrio 'soddisfacente'!? Solo con la morte. Là dove c'è vita c'è turbolenza e affanno. Siamo sempre chiamati altrove. E' importante sapere che, per quanto ci illuderemo di 'allontanarci' dalle nostre ragioni, in realtà non moveremo un passo dal nostro cuore e dalle sue ragioni, che sono le uniche che contino. Tutto sta a saperle riconoscere e a orientare la propria vita verso le mete desiderate, senza farsi portare sempre da tutte le correnti. L'amore non è un approdo? Non realizza il 'pari intervallo' dall'unico centro a cui aspiriamo? Se si riuscisse ad assegnare la stessa 'misura' anche a distanze diverse da quel centro, forse sì. E' divino riuscirci.


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sabato 21 agosto 2010

Una garbata e delicata anomalia


Io non ho incontrato tipi umani, ma persone. Se lo studioso generalizza, l'artista invece cerca l'individuo e la sua irripetibilità. - JULES RENARD

Prendete una città come Tolentino, una ragazza folle di miele, un lavoro di turnista e tanti sogni nella testa e ditemi voi se al mattino potete svegliarvi a Tolentino, paghi della vostra casa, ansiosi di andare a lavorare. La testa è sempre da qualche altra parte. In una sala di registrazione. In un ambiente dall'acustica perfetta, in cui si diffondono le note di un piano. In una sala buia, in cui scorrono immagini in movimento su una parete grande, e non sale fumo dalle sedie. E' passato il tempo in cui si poteva fumare in sala!

Oggi puoi concentrarti sui tuoi pensieri, mentre ti rivedi tutto Rohmer o ti attardi la sera a seguire fino in fondo un'Opera lirica nella metropoli più vicina. Non ti infastidisce nessuno, se in una tersa sala di biblioteca parli a bassa voce con un vecchio conoscente o un'amica che non rinuncia a corteggiarti vuole sottolineare per te il libro che stai leggendo a fatica!

Tu puoi fare queste e mille altre cose indisturbato, perché di tutti i sessi che sono stati contati non ne escludi mai nessuno. Se ti piace parlare con le persone, non ti domandi in quale letto andranno a dormire la sera. E se qualcuno ti sorride, non ti spaventa un orecchino in più o un gesto troppo effeminato. Che una ragazza sia misteriosamente silenziosa ti incanta quanto una pausa breve in un concerto per pochi aficionados o una canzonetta di Cole Porter.

Dopo tutto, Jarrett ha interpretato anche Bach, e cosa mi vorrete dire delle vie che si incrociano nel cuore di un ragazzo che sta per partire da una Tolentino qualsiasi per una Patria lontana in cui piove spesso e che non sa rinunciare alla sua sciarpa sporca e alle scarpe vecchie con cui ama calpestare l'asfalto di città? Non serve entrare nella vita dopo essersi pulite le scarpe, se bisogna entrarci con le proprie scarpe. Io mi porterò le mie. E la sciarpa sporca. E le sciarade di una ragazza folle di miele che non mi lascia andare, anche se ormai le nostre mani si sciolgono in un lungo arrivederci. E' tempo di partire.

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venerdì 20 agosto 2010

Vivere bene la solitudine è un privilegio


Anticipare la solitudine, affinché non ci trovi impreparati. - Duccio Demetrio
Circa un anno fa, si è diffusa la notizia che la metà degli abitanti di Berlino è rappresentata da persone che vivono da sole. I pubblicisti sostengono che questa è un'anticipazione del futuro che ci aspetta: singoli, separati, studenti... Posto che a settembre del 2008 la città contava circa tre milioni e mezzo di abitanti - secondo Wikipedia -, ci troveremmo di fronte alla cifra di oltre un milione e mezzo di persone. Un bel numero, non c'è che dire!

Naturalmente, anticipare la solitudine non vuol dire sognare disgrazie e separazioni traumatiche. Piuttosto, scoprire che si è già un po' soli, che ognuno di noi è solo di fronte al nulla, un istante prima della scelta; che è possibile appartarsi, allontanarsi dalla mischia, addirittura separarsi dal movimento centripeto delle mode e dello spettacolo che tutto divorano.
Nella civiltà malata dell'usa e getta, è un dovere aggrapparsi alla realtà di ciò che dura, non lasciarsi travolgere dall'effimero.

Una buona educazione sentimentale deve prevedere l'invito a praticare la solitudine 'attivamente'. In un'opera importante di trent'anni fa, Cacciari scriveva: La nostra è una società che non educa le persone alla solitudine.

Nelle cose d'amore, i miei insegnanti mi hanno sempre indicato la necessità di portare in dote la propria libertà (indipendenza economica e autonomia personale). Bisogna imparare 'prima' a stare da soli, per non ritrovarsi a dipendere troppo dall'altro. Che nella relazione - soprattutto quella sentimentale - si dipenda un po' dall'altro è normale. Se non si ha nulla da portare in dote, si finisce per dipendere troppo dall'altro.
Cosa c'è di un peggio del fatto di sentir dire: Io non vivo senza di te?

Vivo benissimo da solo. 'Non ho bisogno' di nessuno. Ogni giorno, tuttavia, esco di casa per andare a cercare gli altri, perché il senso dell'esistenza è dato dalla capacità di intrecciare relazioni significative con uomini e donne liberi. La forma più alta d'amore è quella che riusciamo a realizzare con un partner libero spiritualmente da ceppi di ogni genere.

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giovedì 19 agosto 2010

«Stati d'animo, stati di grazia, elegie!»

Esattamente venti anni fa, una Rivista di letteratura* parlava di 'fine dei viaggi', a fronte di un mondo raggiunto tutto, ormai, dagli esploratori.

Le «scritture infedeli» - i testi letterari, ma soprattutto quelli che riferiscono di viaggi - fanno pensare ai resoconti di Marco al Gran Kan ne Le città invisibili di Calvino. Al termine del lungo 'viaggio' dell'Imperatore, questi chiede a Marco se le città di cui egli ha parlato esistono veramente, perché ha l'impressione che l'amico non si sia mai allontanato dalla Corte. Eppure, egli aveva bisogno che qualcuno gli portasse notizie dal suo sterminato Impero! Ormai vecchio, egli non sarebbe mai riuscito a percorrerlo per intero. A metà del racconto gli aveva intimato: «Questo volevo sapere da te: confessa cosa contrabbandi: stati d'animo, stati di grazia, elegie!» E poco prima: «Le tue città non esistono. Forse non sono mai esistite. Perché ti trastulli con favole consolanti? So bene che il mio impero marcisce come un cadavere nella palude, il cui contagio appesta tanto i corvi quanto i bambù che crescono concimati dal suo liquame. Perché non mi parli di questo? Perché menti all'imperatore dei tartari, straniero?» - E Marco, che sapeva secondare l'umore nero del sovrano: «Sì, l'impero è malato e, quel che è peggio, cerca di assuefarsi alle sue piaghe. Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che ancora si intravvedono, ne misuro la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane».

Al termine della narrazione, Kublai chiede a Marco: «Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quali di questi futuri ci spingono i venti propizi».

«Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell'approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s'apre nel bel mezzo di un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che si incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, di istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si debba smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t'ho detto».

Allo stesso modo procederemo noi, raccogliendo gli sparsi frammenti della nostra esistenza, per restituire un resoconto fedele - oh, non saprei dire quanto fedele! - del territorio che abbiamo attraversato. Io non ero solo. La strada che mi ha condotto fin qui pure va detta, ma più arduo sarà procedere verso Nord, verso Ovest, senza assecondare la tentazione - pure presente in me, ma sempre più debole - rappresentata dal mio Sud. Non c'è solo Lei, il mio Oriente, a guidare i passi incerti verso il compimento del mio Destino. Realizzare la mia natura, finalmente trovare il mio ubi consistam, coinciderà con le sue ragioni? Cosa sappiamo di noi e di ciò che saremo? Non troviamo, forse, le nostre vere ragioni lontano da una Verità che sia scolpita nella pietra e, ancor più decisamente, lontano dall'immagine ferma di una improbabile città da cui siamo partiti? Non troviamo quelle ragioni intrecciando i nostri destini con quelli di altri viandanti, partiti come noi in cerca di tracce di felicità sparse nel vento? E se non ci metteremo in ascolto di tutte le voci del vento, lasciando che la pioggia improvvisa intervenga a scuotere le nostre certezze; se non permetteremo alla pioggia di irrompere nella nostra vita, portandovi l'eco lontana di altre voci, come riusciremo a dare voce al nostro cuore irrequieto? e come daremo un nome alle nostre inquietudini, se non usciremo ad incontrare vento e pioggia, per ritrovarci infine sotto lo stesso cielo?

* L'Asino d'oro, dell'Editore Loescher - Anno I, numero 1, Maggio 1990: «Fine dei viaggi»: spazio e tempo nella narrazione moderna

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mercoledì 18 agosto 2010

Le altre ragioni

Si potrebbe obiettare che un Ovest per Itaca e un Sud per la Casa, dopo tutto, sono la stessa cosa. In realtà, la mia Itaca è l'Irlanda. Una seconda Patria? Chi comanda al cuore? Sia lì che qui vedo antiche divisioni, una composizione dei contrasti mai del tutto compiuta.

Le mie Patrie hanno lacerato il mio cuore. Posso dire che mi hanno educato all'idea che l'esistenza ha un fondo tragico, che non possiamo veramente scegliere: due opposte Volontà si agitano in noi, perché è così fuori di noi. Geograficamente, abbiamo un Nord e un Sud, due poli che non si incontrano mai.

Ho voluto che il mio Nord non fosse l'antica madre di cui parla Virgilio. A Nord, è il mio Destino. Sento che a Derry qualcosa succederà. Lo spazio che mi separa da quella città non è lo stesso che si può misurare tra Derry e Tolentino. Andare non è come tornare. Io vado a cercare una parte di me, che la parte silente prenda a parlare, magari a suonare. Avrei alcune cose da dire. E debbo dirle a quella città. Ho scritto anche per il Cinema.

Se tornerò, come credo che accadrà, cosa mi lascerò alle spalle? Tornerò da solo? E tornerò qui? Ma cosa significa, ormai, qui? E' proprio a questa eterna attesa che debbo strapparmi, altrimenti finirò per convincermi che la 'vita buona' è tutta qui, che un non-vivere è tutto ciò che c'è da vivere. Io cerco il mio compimento.

I saldi affetti di casa non mancano, certo. Ma di essi non mi piace parlare. I pochi amici preziosi sono qui. Addirittura, un Musicista. Anche un Filosofo che dice di non esserlo, ma che ha accumulato saggezza da vendere. E un paesaggio fatto di tanti volti e nomi, soprattutto nomi. I volti sbiadiscono con il tempo. I legami si allentano. Quelli più saldi non sono poi quelli che faranno il mio Destino. Li porto con me. Ma debbo partire.

Mi servono occasioni e mezzi per poter dire, non vi dirò cosa: avrete capito perché. La vita non è solo ciò che giace al fondo, un patrimonio inerte da spendere, una volta occupato un 'posto' in cui consistere. Il porto sepolto, poi, ha bisogno di marinai arditi che sappiano riportarlo alla superficie con i loro racconti, perché tutti sappiano che c'è un luogo da cui proveniamo.

Quello che si agita in noi chiede di essere raccontato.

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Lungo i sei lati del mondo, in cerca di un Oriente.



Se assumiamo che il Nord sia la Musica e il Sud la Casa, ad Ovest cercheremo Itaca, ad Est Lei. Dei sei lati del mondo mancano l'alto e il basso: i cieli d'Irlanda e la terra che calpestiamo.

L'Oriente è lei, sempre lei. Ma non la cercheremo in una sola direzione. Ci accadrà di incontrarla dappertutto. E questo vuol dire che la porteremo nel cuore dovunque andremo, chiunque sia e quando vorrà apparire al mondo.

Del mio Nord dovrei dire, forse, che è il Cinema, ma la stella che mi guida, di volta in volta, è l'Estetica, la Musica, il Cinema...

Lei è la Sorgente. Rilke ha scritto in un verso memorabile: io sono la rugiada ma tu, tu sei la pianta. Insomma, c'è qualcosa di 'nativo' in lei. Cos'altro cerchiamo inesausti per tutta la vita se non un Inizio a cui ricondurre le (nostre) cose?

Ricordate le infinite suggestioni di Prima persona di Andrea Zanzotto?

- Io - in tremiti continui, - io - disperso / e presente: mai giunge / l'ora tua, / mai suona il cielo del tuo vero nascere. / Ma tu scaturisci per lenti / boschi, per lucidi abissi, / per soli aperti come vive ventose, / tu sempre umiliato lambisci / indomito incrini / l'essere macilento / o erompente in ustioni. / Sul vetro / eternamente oscuro / sfugge pasqua dagli scossi capelli / primavera dimora e svanisce. / Tu ansito costretto e interrotto / ora, ora e sempre, / insaziabile e smorto raggiungermi. / Ora e sempre? Ma se di un bene / l'ombra, se di un'idea / solo mi tocchi, o vortice a cui corrono / i conati malcerti, il fioco / sospingermi del cuore. E là nel vetro / pasqua e maggio e il rissoso lume affondano / e l'infinito verde delle piogge. / Col motore sobbalza / la strada e il fango, cresce / l'orgasmo, io cresco io cado. / Di te vivrò fin che distratto ecceda / il tuo nume sul mio / già estinto significato, / fin che in altri terrori tu rigermini / in altre vanificazioni.

Ma questo inizio ha da essere vasto e parlare alle soglie del giorno, perché più chiaro sia il timbro della voce quando scoccherà l'ora del suo nascere. Bisogna indugiare a lungo tra il canto dell'usignolo e quello dell'allodola, non tanto per ritardare l'avvento della luce, quanto per esser pronti al suo incedere e saper riconoscere chi e cosa quando sarà. Solo così potrò dirle: ti aspettavo. E, più o meno: ci conoscevamo già. Oppure, ancora: eravamo forse già in cammino e ci separava un pari intervallo. E infine: io avevo iniziato già a parlarti.

Per lo spartito da scrivere qui e per le scene da approntare, perché siano adatti a lei il luogo e l'ora, non dovremmo forse stendere una mappa anche solo provvisoria del territorio che attraverseremo? Io lo so che le cose poi andranno diversamente, ma lasciatemi dire di me, perché un po' più chiare vi siano poi le parole che non pronuncerò, non tanto perché le avrò già dette qui, ma perché la sua luce non so bene cosa evocherà in me e se mancherò l'appuntamento con il mio destino.

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Improvvisamente, poco fa

Lo spazio della musica è la speranza privata, oserei dire nascosta. Il suo tempo e i suoi tempi sono tutto. All'origine di tutto non c'è stata forse un'esplosione? un boato un grido dell'Universo che si è fatto Multiverso... Non era il fragore di un'Orchestra: dal Caos e dal Silenzio all'ordine dei Suoni inauditi, improvviso passo di danza delle cose? Ogni attacco non è già incipit, l'avvio di un racconto?

E la speranza segreta di cui parlavo non è la promessa lungamente coltivata di un dialogo possibile?

Dire "Io ho la Musica" o "la mia Musica" vi sembra, allora, più chiaro? Se l'incontro con una donna, se la sua apparizione - autentica Epifania mondana - rischia di sconvolgere l'assetto abitudinario della nostra vita, come chiameremo una figura che invece si intonerà con essa, che si farà accordo, comportandosi come lo strumento che 'entra' al momento opportuno, né un momento prima né un momento dopo? e che ha qualcosa da dire, a cui a nostra volta qualcosa ancora vorremo dire?

Non è il corrispondersi jam dello strumento dell'anima quello che cerchiamo, come se la vita fosse ogni volta di nuovo una sessione in cui non importa se si tratta di quartetto o di un 'semplice' trio? noi vorremmo, addirittura, che fosse per noi un duetto eterno, cadenzato soltanto dall'ansito breve delle voci e degli sguardi! Le mani saprebbero bene dove posarsi e quando. E le membra tutte del corpo seguirebbero.

Un vecchio poeta ha scritto a sua madre, ormai lontana:

ci siamo sbagliati a disperare di noi, / siamo perfetti / nel duetto per voce sola, / mia itaca perenne di tutte le mie vite / deviate dall'equivoco

Ancora musica, insomma. Oltre la stessa vita! E cos'altro, se non Musica!?

E Lei cosa vorremmo che fosse per noi, se non un Breaking Rain perenne?

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Un presentimento

La possibilità di porre certe domande profonde si forma forse in noi dal presentimento che esse potrebbero trovare risposta attraverso incontri, anzi è anticipazione di incontri. - HUGO VON HOFMANNSTHAL, Il libro degli amici, 1922

L’attesa di un incontro è sempre preceduta da anticipazioni di quel che sarà. Percorriamo con la memoria infinite volte i brevi dialoghi che intrecceremo con l’altro, sforzandoci di rendere visibile a noi stessi lo sguardo benevolo. E la voce? Saremo tesi ad ascoltare improbabili risposte che puntualmente non verranno. Eppure, ben sapendo che è così, noi non rinunciamo a fantasticare. Non accettiamo mai, se non nel tempo della maturità estrema, di andare incontro alla vita come siamo, disarmati ma convinti che troveremo le parole. Di nessuna delle cose anticipate nell’immaginazione ci ricorderemo di fronte all’altro. Improvviseremo, forti di quello che sappiamo già. Ed è sempre così.

Io ricordo. Nei trentacinque anni trascorsi sulla cattedra non ho fatto altro che studiare. Ho preparato (quasi) tutte le mie lezioni, a volte anche con settimane di anticipo, curvo sui libri per giornate intere. Fare una lezione era questo: prevedere ogni passaggio; perfino le parole dovevano essere quelle giuste. Quelle che avevo pensato. Non altre. Ero sempre turbato, però, dal fatto che le lezioni non coincidevano mai con quello che avevo pensato nei miei sforzi 'anticipatori'. Solo negli ultimi anni di insegnamento mi sono reso conto del fatto che le migliori lezioni erano quelle che improvvisavo, decidendo addirittura, una volta arrivato alla cattedra, quello che avrei detto. Ho compreso, altresì, che non avevo fatto altro. Oggi mi domando se la vita non sia poi questo. Noi ci affanniamo, immaginando quello che sarà, ma - come gli Angeli che esitano - immemori di noi di fronte alla luce della Realtà non facciamo altro che improvvisare, divinando dal fondo enigmatico e buio da cui proveniamo. [la testimonianza di un vecchio insegnante]

Se l'Altro sapesse di sé - come dovrebbe sapere di noi - non dubiterebbe mai del nostro amore. Consapevoli di noi stessi, sappiamo bene che nelle cose d'amore le ragioni per cui abbiamo scelto l'altro ci sono note solo in parte. Quando ci ritroviamo a vivere l'attimo ek-statico - quando cerchiamo di trascendere l'hic et nunc della semplice-presenza dell'altro per arrivare a toccare la sua anima -, quel protendersi verso il cuore ben rotondo della verità che è il palpito del cuore che solo è in grado di eternare l'istante, che ne è di noi, se non siamo sostenuti da uno sguardo che inveri i nostri sforzi e che ci dica sì, perché la vita così vuole da noi? [la testimonianza di un'anima disincantata]