Al di qua dello sguardo - Elegia della vita schiva

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sabato 28 agosto 2010

«Non posso sopportare la pioggia!»

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Ci sarà davvero un "mattino"?
C'è una cosa come il "Giorno"?
Potrei vederlo dai monti
Se fossi alta come loro?
Ha piedi simili a Ninfee?
Ha penne come un Uccello?
Proviene da famose regioni
Di cui non ho mai udito?

Oh qualche Studioso! Oh qualche Marinaio!
Oh qualche Sapiente dai cieli!
Vi prego di dire alla piccola Pellegrina
Dove si trova il luogo chiamato "mattino"!

EMILY DICKINSON

[
Cerchiamo sempre un "mattino", un risveglio che porti luce e rinascita, ma quasi sempre la nostra ricerca non ha effetto e ci chiediamo allora se quel mattino esiste davvero e, magari, se siamo noi a non saperlo vedere, perché non riusciamo a spingere lo sguardo al di là di ciò che lo nasconde.
]

Io sento insistente la voce dei vecchi forniti di esperienza, quelli di una volta, che avevano sempre qualcosa da raccontare ed erano convinti che la vita fosse tutta lì, nelle loro storie. Ci portiamo ancora dietro, o forse no!, l'idea che l'esperienza sia quella lì, che uno come me, perché giovane, non abbia esperienza, poco o nulla da raccontare. Ma una sognante Martina e Musica tutto il giorno nelle orecchie e nel cuore vi sembrano poca cosa? E credete che io abbia accumulato fin qui solo tre o quattro storie da raccontare verso la sera della mia vita a un giovane distratto, che magari si porterà la sua Martina nel cuore e starà sognando un concerto su un grande prato con mille come lui?

Osservo tutta la vita scorrere intorno a me, ogni giorno, mai dimentico di me, anzi, assorto e partecipe, incuriosito delle storie, delle mille storie che hanno da raccontare muti i viandanti che incrociamo e che si portano appesa alle grucce del misero corpo un'anima che sogna e che canta.

Cosa credete, che non veda, che non senta! C'è molto da sentire. Basterebbe seguire per strada, o uscendo da un supermercato, qualcuno che abbia iniziato a raccontare, e pedinarlo fino alla fine della storia. Dalle finestre basse delle case di Tolentino puoi percepire distintamente cosa accada nelle migliori famiglie del quartiere. E al telefono di casa, quanti racconti, quanti segreti inconfessabili sciamano nell'aria, specialmente a sera!

Ma di tutte le storie rubate fin qui quale credete che mi piacerebbe di più raccontare? La mia. Carpita dai sogni agitati e dalle chiare visioni dell'alba, si dipana davanti a me, in questo intervallo di fine estate, mentre si preparano cose nuove, come un languido lamento, un abbandono ai dolci ricordi di un'infanzia felice e di una giovinezza nota a pochi, se non a lei.
Ma non affiorano pomeriggi assolati e alberi in fiore né dialoghi interrotti dall'affannato affabulare.

Piuttosto dei volti. Non le facce. Le guance. I capelli.
Le voci. L'ansito breve di mia madre. La voce roca di mio padre. Il campanello di una bicicletta. I freddi inverni. La casa fredda. Le soste interminabili ai vetri della finestra. Fuori piove. Risuona ancora nell'anima il tumulto del cuore, che precorre gli eventi e teme il passo cadenzato dei morti che attraversano la città. Io speravo sempre che non passassero, a ricordare il vento che si abbatte sulla vegetazione indifesa e sconquassa i coppi e scoperchia le case. C'erano morti una volta che procedevano accompagnati da una musica greve, che opprimeva l'anima. Il mio cuore fanciullo come poteva amare la pioggia e il vento e non temere la voce roca di mio padre, che sonava rimprovero, mentre mia madre accorata ci richiamava ai nostri piccoli doveri, pronta a proteggerci dalle nostre paure, consapevole dell'imminente primavera?

Noi tutti sapevamo che acqua e vento e sole e tutte le stagioni, scandite sempre uguali, dovevano passare e avvolgere i nostri pensieri e le nostre notti, a volte insonni, perché avevamo assistito allo spettacolo della morte di un vicino e non riuscivamo a non pensare che potesse venire a bussare alla nostra porta. E questo temevamo.

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