Al di qua dello sguardo - Elegia della vita schiva

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lunedì 23 agosto 2010

Prima persona singolare

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Ciò che pregavi con amore,
che come cosa sacra custodivi,
il destino alle vane ciance umane
ha abbandonato per ludibrio.

La folla entrò, la folla irruppe
entro il sacrario dell'anima tua,
e di misteri e sacrifici ad essa
aperti tu arrossisti tuo malgrado.

Ah, fosse mai che le ali vive
dell'anima librata sulla folla
potessero salvarla dall'assalto
dell'immortale volgarità umana!

FËDOR TJUTCEV

Solitamente ricorriamo alla terza persona singolare. Preferiamo il registro impersonale, per dare vigore logico alle nostre parole. Ci riferiamo così al mondo, alle cose del mondo, all’esperienza altrui; e ci rivolgiamo al mondo, che eleggiamo a nostro destinatario, interlocutore ideale del nostro dire.

Costruire questo spazio non è facile. Si tratta di tenere insieme direzioni diverse: verso me, verso gli altri, verso il mondo.
Trattare la materia dell'esistenza come un oggetto da analizzare, per indagarne il senso e per restituire poi un'immagine credibile delle mosse della ragione, degli scarti del linguaggio, dei passaggi da una condizione all'altra...
Cercare volti non è facile, a partire da quelli noti. La mia Martina, per esempio, dov'è? Mi aspettavo che sarebbe intervenuta con qualche Commento a questo mio mattutino elucubrare solitario. E mio fratello Dario? E tutti gli altri? Inizialmente, si pensa che accorreranno folle a leggere e che i nuovi lettori diano un cenno della loro presenza e del loro affetto. 'Sentirsi dire' dal 'sistema' che 'passano' trenta o cinquanta lettori al giorno potrebbe far piacere, se fosse possibile dare un nome e un volto a qualcuno e ritrovarsi a pensare che ci sono amici tra quegli invisibili viandanti.
Cercare gli altri è come sapere già a chi si parla, per chi si scrive. Ma, come ha chiarito efficacemente, e per sempre dico io, Roland Barthes nei suoi famosi Frammenti di un discorso amoroso, «è dunque un innamorato che parla e che dice:».
E' un soggetto solitario che parla, perché di espressione (di sé, soprattutto) si tratta. Egli cerca sé, cercando gli altri. Tra le pieghe dell'anima si scontra spesso con degli 'inconfessabili': debolezze, viltà, compromessi consumati in silenzio, amori mai nati, esitazioni, affanni... Si potrebbe dire che il nostro nucleo interiore sia un Inconfessabile. Sicuramente, ci apriremo, racconteremo, descriveremo, spiegheremo... Con voce ferma giureremo di essere sinceri, che saremo fedeli alla realtà, che non idealizzeremo né inventeremo storie verosimili per accrescere il nostro significato. Ma a che varrà giurare? Noi non diremo mai (tutta) la verità. E come potrebbe essere altrimenti? Certo, io continuerò a scrivere. Ma che ne sarà dell'aura che si crea quando mi ritrovo sotto lo sguardo indagatore di lei, che mette a nudo la mia anima, come se volesse scardinare, sradicare, tutto illuminare della luce radente del suo sguardo penetrante?

A me piace dire con Hofmannsthal che «la verità è il tono di un incontro». Non la fissità di uno sguardo che tutto oggettiva, che determina oggettivamente circostanze, darà ragione di me e del mio incerto errare. Non nacqui pellegrino, con una meta certa, sicuro dei miei passi. Procedere si deve. Questo lo so. Apparentemente il mio è un esitare. In realtà, io sono impegnato a costruire la mappa del territorio. Non vi sembra che si stia delineando uno spazio linguistico in cui le cose prendono lentamente forma? Provate a mettere insieme i miei frammenti e ditemi se il mio è un errare senza meta e se non abbia un senso stare qui oggi a lamentare questo mio dire - come ieri - in prima persona a te che mi ascolti. Ma che ne sarebbe di te, se io non ti parlassi e se non accennassi così facendo al tuo balbo parlare, ai tuoi incerti passi, al tuo apparentemente vano errare?

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1 commento:

  1. ...e ti vengo a cercare, anche solo per vederti o poterti parlare... diceva Battiato.

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